Quella dolorosa pioggia di novembre

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È il 15 novembre del 1970, trentaseiesimo compleanno di mia madre; e i compleanni dei genitori si festeggiano. Ma è anche domenica, una domenica di pioggia insistente, e alle 14.30 al Comunale arriva il Milan che insegue a un punto la capolista Napoli. Infine, in via del Pratellino, a poche centinaia di metri dallo stadio, alle 17.00 c’è una festa da ballo a casa di una ragazza di nome Paola della quale oggi non ricordo nemmeno vagamente il volto ma che quella mattina mi sembra di una certa importanza.

Il pranzo a casa è festoso, con millefoglie di Caponeri per finire, ci sono regali, sorrisi e auguri. Naturalmente io penso più che altro agli appuntamenti che mi aspettano, tra i quali quello delle 14.30 mi appare di gran lunga il più importante. Per qualche ora ancora sono ingenuo: guardo la classifica e mi sembra che le mie ambizioni (lo scudetto) siano legittime. In cinque partite abbiamo fatto cinque punti, un po’ pochino, ma il Napoli, a nove, non lo temo. Il Milan è a otto e battendolo lo avviciniamo. A otto c’è anche il Cagliari; ma il Cagliari non ha più Rombo di Tuono, azzoppato dall’austriaco Hof quindici giorni prima. A sette un Bologna temibile, con l’intramontabile Giacomino e qualche giovane molto promettente come quel Francesco Liguori che qualche settimana più tardi lascerà ginocchio e carriera sul prato di San Siro per un’entrata terrificante del terrificante Benetti. I compagni di strada a cinque punti sono tutti alla nostra portata, abbondantemente: Roma, Foggia, Torino, Verona. Juventus e soprattutto Inter sono dietro di noi.

Non so perché ma allo stadio vado da solo. Non col babbo che ormai non vuol più venire, o perché non ci sono Julinho e Montuori o perché non ha voglia di prender l’acqua in una domenica di novembre. Non coi miei cugini, coi quali ho visto tante partite e coi quali tante altre ne vedrò. Solo ora questa solitudine mi pare significativa. Entro in Maratona col mio abbonamento, attendo un’ora sotto l’acqua finché finalmente spuntano i giocatori. Il colpo d’occhio è una muraglia di ombrelli. Noi siamo in maglia bianca e pantaloncini neri. Manca Esposito, ci sono Carpenetti (su Rivera!) e Berni col numero 4. Benetti ha il 9, chissà perché. Oggi saprei il risultato prima del fischio d’avvio, ma avevo tredici anni…

L’avvio conferma le mie speranze. Cudicini toglie dall’incrocio un raro tiro da fuori di De Sisti, giochiamo bene. Ma in una ventina di minuti sotto il diluvio ci finiamo noi. Di fronte all’insopportabile la psiche umana, si sa, mette in atto santi meccanismi di rimozione, e così quel che accade per settanta minuti è oggi una sofferente, informe nebulosa dalla quale emergono dolorose e isolate immagini. Un palo di Rivera con un colpo di biliardo. Combin che saetta a rete avventandosi su un pallone da sinistra. Un gol in mezza rovesciata di Pierino Prati e un altro, sempre di Prati, su un servizio dal fondo che forse è solo di Silvano Villa ma che ricorda vagamente quello del Golden Boy l’anno prima in finale di Coppa dei Campioni. Andiamo al riposo sotto di tre gol e in quel calcio, un po’ più serio di quello odierno, recuperare tre gol in 45’ è un’eventualità inesistente. La ripresa è se possibile ancora più umiliante.

Anche se fatico ad ammetterlo segna persino Biasiolo, sullo 0-4 le nuvole si aprono e il sole, per qualche minuto, illumina la nostra tragedia. Poi Eupalla si diverte a dispensare bizzarrie: prima consente a Picchio di segnare di testa, poi – per mettere in chiaro le cose – riporta il Milan in vantaggio di quattro con un bolide di Combin, infine ci regala un rigore che lo sventurato Vitali batte schifosamente e che Eupalla fa entrare lo stesso. Finisce 5-2. Ripeto: 5-2. Il Milan guiderà la classifica per mesi, il campionato lo vincerà l’Inter che prima del diluvio aveva un punto meno di noi, noi ci salveremo avventurosamente all’ultima giornata.

Fradicio, col morale a pezzi, esco dallo stadio e mi trascino in via del Pratellino. Della festa non ricordo nulla se non un salotto buio e, ovattate, le note di Fiori rosa, fiori di pesco di un’estate già lontana. La padrona di casa penso di non averla mai più rivista. Rientro verso l’ora di cena, pronuncio qualche monosillabo, mangio velocemente e vado a letto. La notte è agitata. C’è una possibile interrogazione di greco che avevo rimosso come il gol di Biasiolo, maglie rossonere spadroneggiano sul limitare dei miei tumultuosi sogni. Capisco allora, confusamente, che la gioia inebriante di appena un anno e qualche mese prima, la festa scudetto a casa dei miei zii con una grande torta viola e tricolore, è solo un ricordo. Che la Fiorentina mi accompagnerà con dolore e nel dolore. E che continuerò sempre ad amarla.

Francesco Salvi

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