L’uccellino che volerà per sempre

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Qualche giorno fa ci ha lasciato Kurt Hamrin, uno dei giocatori più amati ed apprezzati della Fiorentina, noto a tutti come Uccellino. Campione nella vita e nello sport, svedese di origine, si è fatto amare da tutti ed è entrato a pieno titolo nei cuori dei tifosi perché ha abbracciato Firenze e la Fiorentina, sposandone i pregi, i difetti, i valori di una città, che lo ricambiato con un amore totale.

Avevamo deciso di scrivere un articolo che descrivesse questo amore infinito, che riuscisse a trasmettere quel senso di appartenenza profondo e quella identità che ha legato Kurt a tutti i tifosi.

Poi abbiamo letto un bellissimo articolo di Marcello Veneziani, pubblicato sul numero di Panorama del 14 Febbraio 2024: chi meglio di un non fiorentino poteva raccontare l’amore per un giocatore non fiorentino, partendo entrambi dal loro non essere fiorentini.

L’articolo è di una bellezza sconvolgente e non saremmo riusciti a scrivere niente di meglio e niente di più: spero che Marcello Veneziani e il suo editore, Panorama, non si offendano se riproduciamo testualmente l’articolo citato. Rappresenta totalmente il sentimento, la sofferenza e la speranza che Uccellino sarà sempre con noi.

Fabio Fallai – Viola Club Franco Nannotti

 

Marcello Veneziani – Panorama del 14 Febbraio 2024

L’UCCELLINO VIOLA CHE VOLERA’ PER SEMPRE

Rievocare Kurt Hamrin non è solo un omaggio calcistico ai contropiedi leggeri ma ficcanti dell’attaccante svedese della Fiorentina, scomparso nei giorni scorsi. Con lui si torna al tempo felice di un disordine creativo che dava pienezza alla vita.

Voi non avete conosciuto Uccellino. Era un piccolo dio volatile, venuto dalla Svezia, che assumeva delicate sembianze umane. Si chiamava Kurt Hamrin, soprannome Uccellino, ed era la mitica ala destra della Fiorentina tra la fine degli anni Cinquanta e la fine dei Sessanta. Leggero come una piuma, con un tocco di palla lieve ma ficcante; le spalle in giù, a sagoma di abete, i calzettoni abbassati in segno di estro, un ciuffetto gentile di capelli lisci a sfumatura alta, sottile nei lineamenti, nei palleggi, nelle incursioni.

Segnò oltre 150 gol in una decina di campionati in maglia viola. E’ morto giorni fa, sulla soglia dei novant’anni, e pochissimi ne hanno parlato; a breve distanza da Gigi Riva che ha meritato l’affettuoso e ammirato ricordi di tanti e della tv.

Hamrin era l’epica della mia infanzia; nel suo nome è riassunta l’età favolosa del calcio. Quando giocavo al pallone – come Hamrin giocavo da ala destr, seppure da mancino – indossavo la maglia viola ma mi chiamavano per ragioni di carnagione Amarildo, il calciatore viola brasiliano. Era il tempo in cui essere di colore era una marcia in più nel calcio, tra Pelè, Didi, Vava e Garrincha del Brasile, o il portoghese Eusebio del Benfica. Tra i viola c’era stato Julinho, e c’erano in giro Jair, Nenè, Cinesinho.

Giocavo otto re al giorno, festivi inclusi, sui campi disastrati o in mezzo alle strade, avevo un bel sinistro. Numerose le ferite e l’acido lattico, ma per me erano decorazioni sul campo.

Il mio primo articolo a undici anni fu una lettera al Corriere dello Sport diretto da Antonio Ghirelli contro Rivera e la Nazionale di Fabbri ai tempi della Corea, la Caporetto del calcio italiano. A otto anni avevo già dedicato una poesia in rima a Miguel Montuori, mezz’ala fiorentina che aveva precocemente smesso di giocare per uno scontro in campo con Maldini senior. Scoprii Indro Montanelli per un articolo che celebrava il secondo scudetto della Fiorentina, titolato La signora in abito viola, apparso sulla Domenica del Corriere nel 1969. Andavo coi miei in commosso pellegrinaggio per vedere i viola quando scendevano a giocare al centro-sud; la prima volta fu all’Olimpico nel giorno del mio onomastico.

Scoprii la gioia interiore quando allo Stadio delle Vittorie a Bari segnò la Fiorentina e io non potevo esultare perché i miei conterranei, che avevano allora il culto del centravanti barese Mujesan, mi avrebbero mangiato vivo, con l’aggravante di alto tradimento etnico. Così al Pino Zaccheria di Foggia ai tempi dell’allenatore Pugliese e del centravanti Nocera. Poi mi crebbero gli occhiali, si atrofizzò il sinistro, lasciai il pallone e passai ai libri e alla filosofia. Diventai col tempo giornalista e scrittore, ma restai in realtà un calciatore fallito, costretto a ripiegare dagli stadi e dal pallone sui fantasmi di carta e le sue pensose malinconie.

Il tifo è stata una malattia della prima infanzia, poi ha percorso tutta la scuola dell’obbligo, lasciandomi solo da adolescente. Per una perversione congenita, io pugliese, ero tifoso sfegatato della Fiorentina. Amavo la sua eleganza, il suo giglio, Hamrin, e poi tutti gli altri da Albertosi a Chiarugi; e la città intera, e l’inflessione fiorentina… Amavo il suo unico scudetto, che coincideva con la mia nascita. La squadra viola non faceva parte degli squadroni vincenti e popolari, come la Juve, l’Inter o il Milan. Fu allora che elaborai la nobiltà della sconfitta e presi a parteggiare con passione romantica per i Vinti. Sapevo tutto della Fiorentina e del calcio. La mia bibbia erano gli album Panini, dove esercitavo il feticismo e l’accademia; ma anche il calcio-mercato con lo scambio delle figurine. In quel tempo odiavo in particolare la Juventus ma invidiavo sotto sotto Omar Sivori. Che riabilitai quando passò con Altafini al Napoli.

Lo consideravo un fantasista capitato per caso tra i ragionieri, un argentino oriundo catturato dai piemontesi e costretto a passare dai cavalli della pampa alle autovetture Fiat. Con un nome da arabo, un cognome nostrano e un’origine sudamericana, Sivori condensava il meridione del mondo, era il riscatto per noi sudisti. A Napoli fu il precursore di Maradona. Amavo i suoi calzettoni scaduti che erano il segno dell’estro, del disordine creativo e che diventarono una moda per tanti attaccanti di periferia.

A dir la verità, mi sorprese sapere qualche anno fa che Hamrin il mito viveva a Firenze e aveva pure un negozio. Mi pareva inconcepibile: per me Hamrin era come Peter Pan o il Gatto con gli stivali, un personaggio fiabesco, il sogno viola di un bambino tifoso al primo stadio. E invece aveva una vita da comune mortale. Non pensavo nemmeno che Hamrin potesse morire; lo immaginavo fuori dal tempo e dal gioco, nel mito, a dribblare la vecchiaia e fare melina con la morte, palleggiando all’infinito e sorprendendo la vita in contropiede, fino al gol.

Non dirò la solita frase: con lui scompare un pezzo della mia infanzia. Perché i pezzi perduti sono così tanti che mi ci sono perso io. L’Uccellino ha preso il volo…

Marcello Veneziani

Pubblicato su Panorama del 14 Febbraio 2024

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