E’ appena uscito un libro, come sempre molto accurato, sulla storia degli allenatori di calcio in Italia e sulla tradizione socioculturale di una professione sempre più rilevante nel mondo del calcio.
Lo ha scritto Massimo Cervelli, Vice Presidente di Museo Fiorentina, storico affermato e tifoso fedelissimo, oltre che amico e collaboratore di Alé Fiorentina.
Pubblichiamo la recensione curata da Felice Accame, Docente di teoria della comunicazione presso il Centro Tecnico della F.I.G.C. di Coverciano.
1. Sia il ‘mestiere’ che la ‘professione’, in quanto parole, hanno una lunga storia alle spalle. Mestiere deriva prima da ‘mistero’ e poi da ‘ministero’ – e si riferiva ai ministri del culto -; professione stava per ‘dichiarare apertamente’ – dichiarare la propria fede, prima, e dichiarare le proprie capacità, poi. Oggi, parlando di mestieri si connota un’attività come fosse qualcosa di umile, mentre la stessa attività diventa qualcosa di più nobile – e di socialmente invalso – se si parla di professione. A chi si accontenta dello stato delle cose che trova, la storia dei mestieri e delle professioni riserva sempre sorprese. Può scoprire, per esempio, che il pittore faceva parte della stessa corporazione dei maniscalchi o che la cura dei denti era affidata ai barbieri.
2. Nel 1972, Gianni Brera scrisse Il mestiere del calciatore non la ‘professione’. Per diventare un mestiere – un’attività per la quale si è ricompensati fino a mantenersi, o quasi -, quello dell’allenatore di calcio ha dovuto attendere almeno qualche decennio: il tempo di aspettare che il gioco del calcio riscuotesse il successo che ha riscosso o che, almeno, promettesse bene in termini di rilevanza sociale. Ma per diventare una professione – perché qualcuno potesse ‘dichiararsi apertamente’ tale sulla base di un attestato – c’è voluto qualcosa di più. Da un lato, le analisi del gioco – non solo da un punto di vista che potremmo chiamare ‘epidemiologico’, per la sua diffusione a partire dalle zone ricche del mondo per poi espandersi praticamente ovunque – ma anche dal punto di vista strettamente tecnico, rivelandone così la complessità – come se, laddove in un primo momento si vedeva un semplice calcio al pallone, in un secondo momento si cominciasse a vedere tutti i movimenti della squadra di cui chi calciava il pallone faceva parte: dall’unità isolata alla pluralità interconnessa. Ecco, allora, che l’aperta dichiarazione delle proprie capacità deve venire a basarsi su degli attestati – attestati che, a loro volta, devono basarsi su un processo di formazione.
3. Ricordo i tempi in cui l’allenatore di calcio lo poteva fare più o meno chiunque – almeno non ai massimi livelli. Ci vollero buoni argomenti e molta pazienza – anche da parte dell’Associazione Italiana Allenatori Calcio – perché l’obbligo dell’allenatore patentato si estendesse ai vari livelli di pratica calcistica. Più che alla solidità della formazione del loro personale, le società pensavano alla debolezza dei loro bilanci. Tutto a scapito del movimento calcistico nel suo complesso, però. Ricordo i tempi in cui ben pochi tra i tifosi sapevano come si chiamava l’allenatore della propria squadra del cuore: quando protagonisti della partita erano soltanto i calciatori. E ricordo anche i programmi di formazione di un tempo – ho ancora gli appunti del corso diretto da Giovanni Ferrari -, quando alla tecnica e alla tattica si faceva seguire un’infarinatura di metodologia dell’allenamento (allora si parlava di ‘preparazione atletica’) e di medicina senza dimenticare la conoscenza delle carte federali. Presto sarebbe subentrata la psicologia e, più tardi – nella consapevolezza delle difficoltà di gestire una squadra – la teoria della comunicazione.
4. L’allenatore di calcio in Italia di Massimo Cervelli (Biblion, Milano 2024), come dice il sottotitolo, è la “storia socioculturale di una professione” e, venendo a colmare lacune ormai annose, costituisce un contributo determinante alla storia del calcio. Da storico scrupoloso, Cervelli è riuscito a documentare passo dopo passo il processo di formazione dell’allenatore nel nostro Paese a partire dagli albori del calcio agli inizi del secolo scorso – quando prima che ‘mister’ l’allenatore era ancora il ‘trainer’ – fino ai nostri giorni ed alla funzione primaria che, in questo processo, ha assunto il Settore Tecnico della Figc. Non solo: sapendo evitare di conferire alla storia di questo processo una linearità di comodo, Cervelli non ha mancato di sottolineare i vari condizionamenti subiti dal processo medesimo in conseguenza dei risultati raggiunti dal nostro calcio e dei contraccolpi politici – inevitabili – che ne conseguivano. Non sempre, insomma, si può pretendere che uno sviluppo sia fatto solo di passi in avanti: non rari, purtroppo, sono i due passi indietro dopo i tre avanti (quando non i tre, dopo i due).
5. La storia che ben racconta Cervelli induce anche a ulteriori riflessioni. Dalla professionalizzazione dell’allenatore nascono nuove professioni. L’interesse (economico, sociale, culturale e tecnico) verso il calcio, infatti, produce specializzazioni in rapporto alle diverse funzioni la cui esigenza improvvisamente emerge: è così che è nato il metodologo dell’allenamento specializzato nella gestione dell’atleta calciatore, è così che è nato il preparatore dei portieri e, via via, tutti gli altri che, oggi, costituiscono lo staff al servizio dell’allenatore – psicologi, antropologi, analisti della partita, specialisti nell’utilizzo delle palle ferme, rifinitori di reparto e della tecnica individuale, etc. Presto – data l’interculturalità delle nostre squadre, non ci vuole molto per profetizzarlo -, sarà la volta dell’esperto in ‘cultural intelligence’. La parcellizzazione del lavoro attorno alla figura dell’allenatore fa sì che, da un lato, lui diventi sempre più collettore di attività altrui – con tutte le conseguenze relazionali (gestire una seconda squadra, lo staff) – e, dall’altro, il responsabile unico e pubblico di tutte queste attività. Ma, come in ogni contesto relazionale in cui qualcuno assume un ruolo asimmetrico rispetto a quello degli altri, anche alla crescita dell’importanza dell’allenatore – al vedersi riconoscere carisma ed alla sempre più enfatica pubblica visibilità -, ecco che, come ha ben spiegato l’antropologo e filosofo Renè Girard, aumentano correlativamente i rischi di diventare il capro espiatorio quando i risultati non fossero giudicati positivamente. Onori e oneri?
Felice Accame
Docente di teoria della comunicazione presso il Centro tecnico della FIGC di Coverciano al libro di Massimo Cervelli ‘L’allenatore di calcio in Italia – Storia socioculturale di una professione’, dal “Notiziario del Settore Tecnico” n. 3/2024