Sul ciglio del burrone, con l’abisso che ci guarda
C’è un momento preciso, nel tardo pomeriggio fiorentino di questi giorni, in cui il cielo si tinge di quel viola che sembra un livido sulla pelle della città. Non è il viola delle cartoline, quello rassicurante dei tramonti estivi su Ponte Vecchio. È un colore più denso, carico di umidità e di non detti, che ti entra nelle ossa insieme al freddo che risale dall’Arno. Ed è esattamente lì, in quella sospensione tra il giorno che muore e la notte che non promette nulla di buono, che ti accorgi di quanto pesi, oggi, questa sciarpa che portiamo al collo. Perché è inutile girarci intorno, inutile fare retorica da bar: gli ultimi mesi ci hanno invecchiato di cinque anni.
Siamo qui a contare i giorni dal cambio in panchina come i carcerati segnano le tacche sul muro, sperando che il tempo porti consiglio o almeno un punto in più. Avevamo sperato nella scossa, nell’elettroshock emotivo capace di risvegliare un paziente in coma vigile. Ci siamo aggrappati a quella speranza con la fede cieca che solo questa città sa regalare, quella fede un po’ folle che ci fa credere che basti cambiare il direttore d’orchestra per far tornare intonati violini scordati da mesi. E invece? Invece ci ritroviamo con un pugno di mosche in mano e una confusione esistenziale che fa quasi tenerezza, se non facesse una rabbia nera. Continuiamo a cercare tracce di calcio giocato come rabdomanti nel deserto, trovando solo sabbia e qualche miraggio sbiadito (una ventina di minuti con la Juventus, qualcosa contro l’Atalanta).
Guardare la classifica, oggi, è un atto di coraggio, o forse di incoscienza pura. È lì, quella graduatoria, fredda come una lapide, a sussurrarci una parola che a Firenze è un tabù che si intreccia a un centenario, una lettera dell’alfabeto che evoca fantasmi di trasferte in stadi di provincia dove il calcio si mescola al fango e alla nebbia. La zona retrocessione non è più un puntino lontano all’orizzonte, una minaccia teorica per spaventare i bambini. È un alito gelido sul collo. È il rumore dei tacchetti degli altri che corrono il doppio, che hanno fame, che vedono nella Fiorentina non il blasone mediceo da rispettare, ma una preda ferita, opulenta e lenta, da azzannare alla giugulare. E fa male, molto male!, vedere la nostra storia ridotta a una lotta per la sopravvivenza, costretti a fare calcoli meschini quando dovremmo, per quelle che sono le nostre ambizioni di tifosi, sognare l’Europa – una qualche Europa, decidete voi quale.
E poi c’è il campo. O meglio, quello che succede – o non succede – dentro quel rettangolo verde che sembra diventato improvvisamente troppo grande per le gambe dei nostri ragazzi. Anche e soprattutto per quelli che l’anno scorso ci avevano fatto illudere. Giocatori che sembravano toccati dalla grazia, che accarezzavano il pallone con la leggerezza di chi sa di essere forte. Oggi li guardi e ti chiedi se non siano stati sostituiti da sosia malinconici. Gente che vaga per il campo con lo sguardo basso, con le gambe piene di piombo e la testa piena di nuvole. E non è solo questione di condizione atletica. È l’anima che si è sgonfiata. Un’involuzione tecnica e mentale che lascia sgomenti, come vedere un tenore perdere la voce proprio mentre si alza il sipario.
Certo, un ruolo da comprimario forse ce l’ha anche la sorte. Quella vecchia signora bendata che con noi sembra averci preso gusto a togliersi la benda, per prendere meglio la mira. La partita contro l’Atalanta, ad esempio, è stata il manifesto del nostro tormento. Un primo tempo tutt’altro che eccelso, ma quantomeno positivo, in casa di una squadra decisamente più forte, e a una manciata di minuti dal tè caldo subisci gol, in quel modo, per un cross sbagliato. E poi quel palo di Kean. In quel cross divenuto molto di più e nel rumore sordo del pallone che si stampa sul montante c’è tutto il sarcasmo del destino. C’è la sintesi perfetta di un periodo in cui se ti cade una fetta di pane, stai pur certo che cadrà dalla parte della marmellata. Perché il calcio, come spesso lo è la vita del resto, è crudele, è un romanzo russo senza lieto fine garantito. E quel pizzico di sfortuna non è un alibi dietro cui nascondersi, ma il sale sulle ferite di un gruppo che, appena prova a rialzare la testa, riceve uno schiaffo in faccia dalla realtà.
E in mezzo a tutto questo, ci sono i tifosi. Il popolo viola. Gente strana, va detto. Gente capace di polemizzare sul colore dei seggiolini mentre la nave affonda, ma anche gente capace di un amore così viscerale da fare paura. E i tifosi adesso sono davvero stanchi. Non di perdere, perché la sconfitta purtroppo fa parte del nostro DNA culturale, l’abbiamo nobilitata nei secoli. Sono stanchi dell’ignavia. Sono stanchi di vedere maglie sudate per finta, di sentire dichiarazioni preconfezionate che sanno di plastica. C’è un silenzio strano in città, un mormorio di fondo che è peggio della contestazione aperta. È il rumore della disillusione. Quella sensazione di vuoto pneumatico che ti prende la domenica sera, quando spegni la tv o torni dallo stadio e ti chiedi “ma chi me lo fa fare?”. Eppure, la risposta la conosciamo già. Ce lo fa fare quel senso di appartenenza che è più forte della logica, quella malattia, solitamente ereditaria, che ci fa sentire parte di qualcosa di unico, anche quando quel qualcosa ci prende a calci nel cuore.
Adesso arriva dicembre. Il mese delle luci, dei regali, della frenesia natalizia. Per noi sarà il mese del giudizio universale. Quattro partite, contro Sassuolo, Verona, Udinese e Parma. Quattro finali. Non c’è più spazio per il “vedremo”, per il “lavoriamo per migliorare”. Il tempo degli esperimenti e del rimandare è finito, sepolto sotto il freddo di novembre. Le prossime gare non assegneranno solo punti, definiranno chi siamo. Ci diranno se siamo ancora vivi, o se dobbiamo veramente prepararci all’estrema unzione sportiva. È un crocevia brutale, senza sconti. Dicembre sarà un mese decisivo non per la tattica, non per gli schemi, ma per gli uomini. Bisognerà guardarsi allo specchio, nel silenzio dello spogliatoio, e decidere se si ha il coraggio di essere degni di questa città. Perché Firenze perdona tutto, perdona l’errore tecnico, perdona la giornata storta, ma non perdona il tradimento emotivo. Non perdona chi tira indietro la gamba, chi si arrende prima del fischio finale.
Serve ritrovare quella scintilla, quel fuoco sacro che sembra essersi spento sotto un diluvio di mediocrità. Serve che qualcuno si prenda la squadra sulle spalle, non con le parole, ma con gli occhi, con la rabbia, con la voglia di ribellarsi a un copione che sembra già scritto da uno sceneggiatore sadico. Serve un sussulto di dignità.
Perché, alla fine della fiera, la Fiorentina non è dei presidenti, non è degli allenatori e nemmeno dei giocatori che passano. La Fiorentina è di chi resta. È di chi si sveglia il lunedì mattina con l’umore dettato dal risultato della domenica. È nostra. E proprio per questo, fa così male vederla ridotta così. Ma proprio per questo, non smetteremo di guardarla e supportarla, con quel misto di amore e disperazione che è l’unica vera cifra stilistica di questa città.
Siamo sul ciglio del burrone, con il vento che tira forte e l’abisso che ci guarda. Possiamo lasciarci cadere, o possiamo piantare i piedi a terra, stringere i denti e risalire. Non serve un miracolo. Serve ricordarsi chi siamo e per cosa lottiamo. E forse, solo forse, questo dicembre potrà regalarci non un sogno, ma il risveglio da questo incubo. Che, a pensarci bene, sarebbe già il più bello dei regali.
Giacomo Cialdi – Direttore Alé Fiorentina



