di LORENZO MAGINI – 31° puntata
tratto dall’originale stampato nel n° 3 Anno IV di Alé Fiorentina del Novembre 1968
L’anno della gloria
Il dissidio Bernardini-Gren…
Sul « Guerin Sportivo » del 3 maggio 1955 apparivano, nello stile irriguardoso di Bruno Slawitz, queste assiomatiche affermazioni: 1°) La Fiorentina è una grande squadra che, se ben diretta, avrebbe potuto vincere tranquillamente il campionato: 2°) quella squadra colabrodo recante maglia viola che ha offerto sì triste spettacolo sui campi di Bergamo, di Milano, ecc. è conseguenza degli errori tecnici e psicologici dell’allenatore che a metà campionato si è messo a far flanella (effetto dello scirocco?); 3°) il capriccio polemico di Bernardini rischia di diventare la causa determinante nell’attribuzione dello scudetto ». Era un feroce attacco a Bernardini per il modo, secondo lo scrittore, col quale aveva condotto la squadra durante il campionato, ormai alle ultime battute, 1954-55. Bernardini ritenendosi offeso non tanto dai giudizi tecnici, quanto dal quel «far flanella», dava ordine ai suoi legali di querelare il giornalista.
Qualcosa di vero però, nelle affermazioni di Slawitz, c’era. Quello che lui chiamava capriccio polemico ed errore tecnico e psicologico di Bernardini, altro non era che il profondo dissidio venutosi a creare tra l’allenatore viola e il «professor» Gren. Ed era lo stesso Gren, in una intervista polemica rilasciata a «La Nazione» subito dopo la partita Fiorentina-Inter disputata al Comunale, ultima in maglia viola per lo svedese, a confermare questo dissidio. «Il gioco che Bernardini preferisce non è il mio. Personalmente ritengo che sia anche non molto felice per la squadra e che attraverso la tattica inaugurata quest’anno dalla Fiorentina, difficilmente si possa raggiungere quello scudetto che i fiorentini sognano da anni. La permanenza di Bernardini ad allenatore (già confermato da Befani) mi impedisce di rimanere ulteriormente in maglia viola».
C’era, in queste parole, la spiegazione più esauriente possibile del comportamento deludente della squadra nel campionato che stava per concludersi. Gren non era riuscito ad inserirsi (non vogliamo dire ‘non aveva voluto’, perché la sua serietà di giocatore è al di fuori di ogni discussione) nel modulo di gioco che Bernardini aveva cercato di realizzare per la squadra viola; un modulo che essenzialmente consisteva nel ridurre al minimo indispensabile la geometria ragionata a centrocampo accentuando invece il pronto lancio di disimpegno con palle lunghe sulle quali potessero avventarsi il torello Virgili, di per sé negato al dialogo stretto, e la velocità considerevole dei Bizzarri e dei Mariani. Per Gren il gioco delle palle lunghe non aveva senso, in quanto le riteneva o palle perse o palle alla mercé degli avversari. Il «professore», in altre parole, sosteneva ancora a spada tratta la validità del calcio ragionato, quello per intenderci da lui praticato nel Milan; non voleva riconoscere quella evoluzione del gioco che i campionati mondiali in Svizzera avevano in maniera così lampante messo in mostra; non voleva ammettere che l’era dei Gren stava definitivamente tramontando, sostituita dall’era del gioco alla Schiaffino. Proprio in quell’anno infatti si disputava, da un punto di vista tecnico tattico, sul modo di coprire la famosa «terra di nessuno» (definizione questa dovuta al mediano della nazionale inglese Blanchflower), che l’Ungheria aveva coperto magistralmente con l’arretramento di Hidegkuti, e che Bernardini, riprendendo in fondo una precedente idea avuta da Foni nell’Inter del 52-53, avrebbe risolto creando il pendolare Prini.
… e quello Befani-Società.
Bernardini era assolutamente certo di poter creare una squadra da scudetto. Convinto di avere la difesa più forte ed omogenea d’Italia, chiedeva a Befani di poter completare la prima linea con elementi di sicuro valore ed attuare così quel modulo di gioco che lui aveva in testa, basato su quegli schemi da lui ritenuti fissi e irreversibili.
Uno di questi due elementi Bernardini lo aveva seguito attentamente ai campionati mondiali in Svizzera. Si trattava dell’ala destra della nazionale brasiliana Julio Botelho, detto alla maniera brasiliana Julinho. A Befani ne chiese l’acquisto. Il presidente, che nell’allenatore nutriva la più cieca fiducia, sapendo di dover andare incontro a sacrifici finanziari non indifferenti, chiese all’assemblea la modifica dell’art. 43 dello statuto. Questa modifica consisteva nel portare da sette a nove il numero dei consiglieri, e da due a tre anni il mandato della durata in carica del consiglio. Tutto questo allo scopo di poter disporre di maggiori possibilità finanziarie e di poter ripartire in un periodo più lungo gli eventuali ammortamenti di bilancio. L’assemblea dei soci disse no. Di fronte all’intransigenza dell’assemblea Befani minacciava le dimissioni sue e dell’intero consiglio. Senonché, in una nuova assemblea tenutasi il 5 giugno, la maggioranza dei soci ritornava sulle proprie decisioni e concedeva a Befani le modifiche da lui richieste. Si può ben dire, che dalla concessione di queste modifiche cominciava per la Fiorentina l’operazione scudetto.
Alla scoperta dell’America
Il nuovo consiglio, integrato da Palli e Pacini, si metteva subito all’opera per il potenziamento della squadra. Ed in questo, una volta tanto, una mano gliela dava la fortuna; un vero colpo di fortuna infatti si può chiamare l’acquisto di uno sconosciuto attaccante dal nome di Miguel Montuori. La notizia del suo acquisto si diffondeva ancor prima che finisse il campionato 54-55, e precisamente la settimana prima dell’ultimo incontro interno con l’Inter. E fu forse proprio questa notizia la causa prima delle dichiarazioni soprariportate di Gren. Montuori infatti, nelle intenzioni di Bernardini, era l’uomo che avrebbe dovuto prendere il posto del «professore».
«Miguel Montuori, mezz’ala ambidestra proveniente dal Club Universitario Cattolico di Santiago del Cile; anni 23, alto m. 1,76; 18 gol in 26 partite di campionato; capocannoniere della nazionale cilena. 27.000 dollari (ca. 18 milioni di lire) il suo prezzo d’acquisto, dei quali 10.500 (sette milioni e mezzo di lire) come ingaggio per il giocatore. Se tutto il bene che si dice – commentava Giordano Goggioli su La Nazione – corrisponderà al vero (gli osservatori tecnici incaricati dalla Fiorentina, tra i quali un agente personale dello stesso presidente Befani, sostengono che sia la più grande rivelazione dell’anno del calcio sudamericano), la società viola ha fatto un grosso colpo».
Montuori era nato a Buenos Aires ed aveva mosso i suoi primi passi calcistici nei «boys» del «Portegna» del Racing Club, la squadra che gli argentini considerano come l’aristocrazia del loro calcio. Giocando nei «boys» aveva suscitato l’interesse di Antonio De Mare, nazionale argentino degli anni ’20 ed osservatore della squadra del Club Universitario Cattolico di Santiago del Cile, della quale in precedenza era stato allenatore. Per conto di quest’ultima, De Mare aveva ingaggiato il ventunenne argentino per mezzo milione di pesos (ca. un milione e mezzo di lire).
Innamorato del dribbling, nel suo primo anno di attività non aveva combinato gran che; sfrondato in seguito il suo gioco degli inutili preziosismi tanto cari ai giocatori argentini, era esploso nell’anno successivo segnando appunto, come abbiamo detto, 18 gol in 26 partite.
Chi era stato a segnalare a Befani questo quasi sconosciuto? Un prete italiano vivente in Cile: padre Volpi. Lo stesso prete, convinto in buona fede di aver scoperto un altro Montuori, porterà in seguito anche un altro giocatore alla Fiorentina: il diciassettenne Rinaldini.
Purtroppo però, alla prova dei fatti, questo Rinaldini non dimostrava di possedere neppure un decimo delle qualità di Miguel, ed insieme alla sua pochezza, sia pure unita alla sua giovane età, dovrà ritornarsene in Argentina con la speranza di conquistare su quei campi la gloria che non aveva potuto raggiungere in Italia.
Alla ricerca dello straniero…italiano.
L’acquisto di Montuori non aveva però suscitato molto entusiasmo. In fondo, per lo sportivo che pochi giorni prima aveva visto all’opera i campioni brasiliani del Fluminense guidati dal grande Didì, questo Montuori non era che un qualunque carneade da prendersi con tutti benefici d’inventario. Befani però era troppo intelligente per fermarsi all’acquisto di uno sconosciuto, sia pure in possesso di validissime credenziali. Tramite i buoni uffici di Bigogno, ancora alla guida di quel l’Udinese che meritatamente aveva concluso il campionato al secondo posto e che poi, come vedremo, sarà condannata alla serie B per un illecito sportivo avvenuto due anni prima (!), assidui contatti correvano in quei giorni tra Befani e Bruseschi per «raggio di luna» Selmosson. Mentre però la manovra del tira e molla era riuscita bene l’anno prima con Virgili, questa volta, per la concorrenza spietata di Tessarolo, presidente della Lazio, l’affare Selmosson sfumava nel nulla. Befani non era un uomo da pazzie; di fronte alla cifra offerta dalla Lazio (120 milioni), passava senza esitazioni la mano.
L’acquisto di Julinho.
Continuavano comunque i contatti con diverse società italiane per il rafforzamento della squadra. Nulla si lasciava d’intentato per avere un grosso giocatore ancora. Ma lo scopo principale di Bernardini e Befani era e restava Julinho. Per questo nella prima decade di luglio partivano per il Brasile Bernardini e Pacini con l’ordine preciso di Befani di concludere a costo di qualsiasi sacrificio l’ingaggio dell’ala destra brasiliana. Giorni di spasmodica attesa per i tifosi fiorentini. Un’attesa che derivava dal fatto che si tentava di tutto pur di trovare un appiglio per far passare Julinho come oriundo. Frenetica quindi la ricerca nei registri anagrafici brasiliani di un… nonno italiano. Si credette di averlo trovato in un certo Boteli, emigrato dalla Garfagnana in Portogallo dove avrebbe cambiato il cognome da Boteli in Botelho, e quindi passato in Brasile circa cinquanta anni prima. Un nonno fasullo, sia ben chiaro; tanto fasullo che nonostante i reiterati sforzi di farlo passare per tale, la squadra viola sarà costretta a tesserare Julinho come straniero e con non poche difficoltà, suscitando nello stesso tempo feroci polemiche specialmente tra le squadre del nord. Finalmente, il 20 luglio, Pacini poteva mettere nero su bianco coi dirigenti del Portuguesa e Julio Botelho diventava viola.
Cinque milioni e mezzo di cruzeiros (37 milioni e mezzo di lire italiane) andavano alla società brasiliana; due milioni e mezzo di cruzeiros (22 milioni e mezzo di lire) al giocatore: in tutto 60 milioni di lire italiane. Julinho, e Montuori erano costati alla Fiorentina 78 milioni.
Se si pensa che l’anno prima Virgili era costato alla società viola quasi 75 milioni da solo, mai affare più colossale fu fatto da una società. E di questo dobbiamo dare atto alla sagacia, tutta pratese, nel condurre gli affari del presidente Befani.
Con l’acquisto di Julinho la prima linea viola assumeva questo schieramento: Julinho (25 anni), Montuori (23), Virgili (20), Gratton (22), Bizzarri (20); una prima linea che avrebbe benissimo potuto resistere per svariati anni.
L’affare sfumato di Soerensen.
Convinti di poter tesserare Julinho come oriundo, la Fiorentina si gettava alla ricerca di un altro straniero. Bernardini, pur nutrendo una grande fiducia su Bizzarri, sapeva benissimo che un campionato come quello italiano esigeva sempre dalle squadre tese alla conquista del titolo diverse soluzioni di ricambio. D’altra parte i vent’anni di Bizzarri davano adito a dubbi sulla sua continuità. Essendo possibile il tesseramento di Montuori come oriundo vero e proprio (per lui non c’era stato bisogno di affannarsi tanto per trovargli un nonno: a Sorrento infatti vivevano i suoi parenti) ed essendo per di più disponibile anche per la nazionale (le partite giocate con la nazionale cilena erano state tutte a livello di amichevoli e non ufficiali), la Fiorentina, che già aveva deciso di non riconfermare Gren, cercava con ogni mezzo di accaparrarsi uno straniero d’esperienza e di valore, proveniente da una società italiana. La scelta cadde su Soerensen, che stante i suoi 32 anni, Bernardini reputava uno dei più adatti al compito jolly della squadra. Soerensen, che proprio in quell’anno aveva contribuito in maniera notevole alla conquista del titolo di campione d’Italia da parte del Milan, era virtualmente libero. Dopo avere in un primo tempo dato il suo assenso alle offerte della Fiorentina, da Odense, sua città d’origine in Danimarca, Soerensen telefonava a Befani dichiarandosi dispiaciuto di non poter mantenere la sua parola in quanto aveva deciso di concludere la sua carriera subito dopo la partita Inghilterra-Resto del Mondo in programma a Belfast il 13 di agosto. Voleva chiudere in bellezza; la convocazione fra gli atleti scelti per quella partita, rappresentava per lui il più grande traguardo raggiungibile.
Befani, temendo che le ragioni addotte dal danese nascondessero una manovra di qualche società italiana per mettere nel sacco la Fiorentina, la sera stessa volava da Ciampino a Copenaghen per intavolare trattative dirette col giocatore. Dopo una serie di colloqui tra il presidente e Soerensen, questi comunicava la sua decisione definitiva: la sua carriera di calciatore si sarebbe conclusa sul campo di Belfast il 13 di agosto. A Befani non restava che prendere atto della decisione del giocatore e ritornarsene in Italia.
Per ovviare a questa situazione la Fiorentina concludeva lo scambio Mazza Mariani con l’Inter. Sebbene in aggiunta venissero versati alla società viola un certo numero di milioni, non si può certo dire che l’affare fosse dei più redditizi: Mazza infatti aveva raggiunto ormai i trentuno anni mentre Mariani ne aveva appena ventiquattro. Con l’acquisto di Mazza, piuttosto discusso dalla tifoseria, e quello di Toros dal Milan, quale riserva di Sarti, si concludeva praticamente la campagna acquisti viola.
Una campagna limitata al massimo, ma clamorosa per quanto riguardava l’ingaggio di Julinho, e fortunatissima, come si dimostrerà durante l’arco del campionato, per quello di Montuori.
Scandali a go-gò.
Durante il mese di luglio il mondo del calcio era messo a rumore da una serie di scandali con ripercussioni gigantesche tali da provocare in alcune città la mobilitazione della polizia. Già in precedenza, tra il maggio e il giugno, un primo accenno a questa ondata scandalistica si era avuto con l’affare Panciroli, l’individuo che sosteneva di avere addomesticato più di un risultato a favore del Milan. Il caso dava la stura a polemiche feroci, senza esclusione di colpi, tra i giornali del nord e quelli del sud; tra questi, particolarmente accanito il «Tifone» di Roma, sostenitore a spada tratta delle tesi sostenute dal Panciroli; tra quelli del nord, in evidenza la «Gazzetta dello Sport» impegnata a sostenere l’inesistenza dei reati e in via subordinata l’estraneità agli stessi del Milan e del suo presidente. La polemica però non si limitava ai giornali. Ulteriori sviluppi prendeva con dichiarazioni più o meno clamorose tra presidenti di società. Si assisteva così ad un duello sulle colonne dei giornali tra Rizzoli, presidente del Milan, e Dall’Ara presidente del Bologna, con relativa minaccia di ricorrere alla carta da bollo da ambedue le parti. Poi, come sempre succede, quando per amor di patria si cerca di coprire le magagne, tutto finiva nel nulla. Atroci dubbi però restavano nelle menti degli Sportivi italiani. A confermare questi dubbi giungeva, come un fulmine a ciel sereno, la decisione della Lega che comminava alla Udinese la retrocessione in serie B; causa di questa decisione un illecito sportivo commesso dalla squadra friulana due anni prima nell’incontro con la Pro Patria, decisivo per la permanenza in serie B. Stato d’allarme per la polizia a Udine; interrogazioni al parlamento, ridda di voci, di accuse e controaccuse. Altrettanto succedeva tre giorni dopo a Catania per lo scandalo Scaramella. Era lo Scaramella un arbitro romano assai apprezzato, che però, come in seguito fu dimostrato, non disdegnava concedere i propri favori arbitrali dietro compensi dell’ordine di milioni. Nei riguardi del Catania infatti l’arbitro romano si era fatto consegnare dai dirigenti catanesi la somma di un milione e mezzo di lire per favorire la loro vittoria negli incontri casalinghi con l’Atalanta e il Genoa.
Una ridda di illazioni, di deduzioni non certamente prive di fondamento, ne traevano gli sportivi di tutta Italia. Nell’affare Udinese c’era chi collegava la severissima punizione della squadra friulana al caso Panciroli. Non bisogna infatti dimenticare che, fino a quattro domeniche dalla fine del campionato, l’Udinese era stata la più temibile antagonista del Milan e che alcune partite, vedi quella con l’Inter a Milano, erano state falsate da direzioni arbitrali sempre a scapito dei bianconeri udinesi. Con lo scandalo Scaramella si metteva sotto accusa l’intera classe arbitrale italiana. Da questo gli sportivi (in verità come dar loro torto?) traevano quelle conseguenze logiche che in determinate partite avevano tratto solo per passione o delusione.
Davanti agli occhi per esempio degli sportivi fiorentini, alla luce di questo scandalo, non apparivano più tanto sconcertanti, le direzioni arbitrali, viste al Comunale, di Agnolin e di Campanati; e tutti si auguravano che alla fine il bubbone, così putrido e maleodorante, delle direzioni arbitrali arbitrarie, fosse definitivamente estirpato. Il campionato futuro, dal quale tanto si ripromettevano i tifosi viola, doveva essere cristallino e limpido.
Ai piedi dell’Amiata la preparazione.
Il raduno dei viola e l’annunciato arrivo dei due sudamericani, distolse però l’attenzione dei tifosi dagli scandali. Tutta la loro attenzione era rivolta al futuro della squadra viola, non al passato.
Il 31 di luglio si aveva allo stadio il raduno post ferie. La sera stessa il pullman scaricava la comitiva viola ad Abbadia S. Salvadore, alle pendici dell’Amiata, per un breve periodo d’ossigenazione. Bulle, in Svizzera, l’anno prima, era stata per la Fiorentina una località poco fortunata: meglio cambiare e rimanere in Toscana. Il 4 di agosto arrivava alla stazione di S. Maria Novella Julinho. Folla immensa e stato maggiore dirigenziale al completo. Sprizzante di gioia e d’entusiasmo il consigliere Gazulli che a Giordano Goggioli, presente anche lui con una folta schiera di giornalisti, non aveva timore di dire: «Julinho e Montuori faranno vedere i sorci verdi a tutte le difese italiane. Sono anzi disposto a scommettere un milione che Montuori sarà convocato appena possibile in Nazionale». Goggioli si salvava in corner accettando la scommessa sulla base di un caffè. A vincerlo però, sarà proprio Gazulli. Se Goggioli l’abbia pagato non potremmo giurarlo.
Due giorni dopo arrivava Montuori. Stessa moltitudine di folla e stesso entusiasmo. La certezza di riuscire alfine a conquistare il titolo di campioni d’Italia aveva decisamente preso il posto delle annuali speranze. Quella certezza si sarebbe ben presto tramutata in realtà.
A tale scopo, tra gli abeti e i castagni dell’Amiata, Bernardini cominciava il suo lavoro. Un lavoro che si sarebbe concretizzato in un magnifico, purtroppo irripetuto, capolavoro.