Le recenti scomparse di Sinisa Mihajlovic e di Gianluca Vialli ripropongono purtroppo tutti gli interrogativi sui tanti, troppi casi di morti premature che dobbiamo contare tra i calciatori della nostra serie A.
L’indiscutibile valore e la popolarità dei due personaggi hanno fatto sì che i media si siano inevitabilmente soffermati sulla qualità di calciatori e sulle doti umane che avevano espresso ed esprimevano, sui successi delle loro carriere che li hanno resi a ragione beniamini non solo delle diverse tifoserie cui appartenevano ma possiamo ben dire di tutta la tribù calcistica italiana e non solon come soprattutto nel caso di Gianluca Vialli.
Forse giustamente si è sinora glissato sulla circostanza che due grandi atleti, due uomini nel pieno della loro maturità se ne siano andati tanto presto, la commozione è ancora troppo forte ed è il momento di celebrare gli uomini e gli atleti senza porsi domande, ma domani, esauritasi l’onda emotiva suscitata dall’evento, sarà inevitabile aggiungere i nomi di Sinisa e Gianluca alla triste lista dei calciatori precocemente scomparsi.
Atteso che le statistiche registrano tra i calciatori una maggiore incidenza di certe patologie – secondo uno studio epidemiologico dell’Istituto Mario Negri di Milano la SLA – lugubre acronimo della sclerosi laterale amiotrofica – ha tra i calciatori di serie A un’incidenza di sei volte superiore rispetto a quella della popolazione generale – c’è da dire che le ricerche sin qui condotte non hanno accertato alcun nesso tra le diverse patologie causa delle morti precoci dei calciatori e la loro attività sportiva.
Sono stati fatte le ipotesi più disparate e fantasiose, anche oltre l’uso/abuso di farmaci che nel corso di una carriera e nelle diverse epoche un calciatore può aver assunto, ipotesi che vanno dalla frequenza dei colpi di testa ed ai loro effetti a livello cerebrale, ai ripetuti traumi agli arti inferiori, sino addirittura all’impiego di prodotti chimici nella manutenzione dei campi di gioco e di allenamento, senza tuttavia mai arrivare ad alcun esito che stabilisse un qualsiasi rapporto di causa effetto.
Solo nel caso della morte del nostro Bruno Beatrice, nel procedimento giudiziario che fu a suo tempo aperto peraltro conclusosi nella fase preliminare per intervenuta prescrizione, l’accusa stabilì un nesso tra la leucemia che se lo portò via a soli 39 anni ed un intenso ciclo di raggi Roentgen, correva l’anno 1976, al quale il calciatore fu sottoposto per guarire più in fretta da una pubalgia.
Ad oggi quindi la scienza medica non ha fornito alcuna spiegazione dell’inquietante fenomeno di queste morti precoci e sospette se non la generica presa d’atto che un’attività sportiva professionistica svolta al più alto grado, nonostante l’allenamento, produca livelli di stress tali da poter minare la salute dell’atleta.
E ci vengono qui in mente due personaggi, tra loro distantissimi, che ebbero in qualche modo a pronunciarsi sulla questione, Carlo Ancelotti ed Enrico Cuccia, sì proprio lui, il presidente di Mediobanca, dominus per decenni della finanza italiana, un addetto ai lavori il primo, uno dei più importanti banchieri italiani del Novecento ma che forse non era mai entrato in uno stadio il secondo.
Ebbene il primo, nel corso di una delle tante trasmissioni sul doping nello sport che ci è capitato di seguire, sosteneva che l’atleta professionista sia di per sé un soggetto patologico e quindi bisognoso di supporto farmacologico, giustificando un certo tipo di approccio nella gestione sanitaria dei calciatori.
Il secondo, ormai novantenne, nella sua quotidiana passeggiata mattutina nel centro di Milano dalla propria abitazione alla sede di Mediobanca in via Filodrammatici (oggi piazzetta Enrico Cuccia), pressato da un petulante intervistatore che sino a quel momento era riuscito a strappargli appena qualche monosillabo, alla domanda sul segreto della sua longevità fisica ed intellettuale lapidariamente se ne uscì rispondendo che in vita sua aveva sempre mangiato poco e soprattutto non aveva fatto sport.
Giusto quindi tenere i fari accesi sul fenomeno, nell’auspicio che i progressi della medicina dello sport possano un domani consentire all’atleta professionista le migliori e più durature performances ed i più rapidi recuperi dagli inevitabili infortuni senza che ne sia messa a repentaglio la salute.
Ricordando Bruno Beatrice il pensiero non può non andare agli altri giocatori prematuramente scomparsi che hanno vestito la maglia della Fiorentina, squadra purtroppo sovra rappresentata in questa nera lista, e che vogliamo ora qui richiamare alla memoria ritraendone soltanto i più o meno luminosi trascorsi calcistici, in particolare in maglia viola, per sentirli ancora tra noi, posando una mano di biacca sulla dolorosa sorte loro toccata.
E sono purtroppo tanti da poter declinare una formazione, un undici accomunato dallo stesso triste destino, che si apre col portiere Massimo Mattolini pisano di San Giuliano Terme, prima riserva di Superchi poi promosso titolare da Carletto Mazzone nel campionato 1976-77, quello concluso al terzo posto anche se a distanza siderale dalla Juventus di Trapattoni ed il Torino di Gigi Radice campione uscente, rispettivamente finiti a 51 e 50 punti. Ceduto al Napoli l’anno successivo, vi resta solo un campionato per approdare al Catanzaro dove resta quattro stagioni anche in cadetteria, cadetteria nella quale difenderà la porta di altre squadre del Sud, collezionando comunque complessivamente 125 presenze in serie A.
Bruno Beatrice, milanese cresciuto nelle giovanili dell’Inter, proveniente dalla Ternana, milita tre stagioni in viola dal 1973 al 1976 dove viene a sostituire il ragazzo di San Frediano Andrea Orlandini finito al Napoli e nella Fiorentina dà il meglio di sé, soprattutto nei primi due campionati con Radice e Rocco. E’ tra i protagonista della finale vittoriosa di Coppa Italia contro il Milan nel giugno 1975 sostituito per infortunio da Lelj all’inizio del secondo tempo. Centrocampista di interdizione e di corsa, capace di giocare anche terzino fluidificante, come allora si diceva, sfruttando la sua naturale velocità, ne ricordiamo il fisico possente e la trascinante generosità.
Giuseppe Longoni, anch’egli di scuola interista dove inizia come ala sinistra per poi essere adattato a terzino, arriva in una Firenze fresca di scudetto nel 1969 dal Cagliari, scambiato col pari ruolo Eraldo Mancin che grazie a tale scambio avrà la fortuna di bissare lo scudetto vinto con la Fiorentina subito l’anno successivo con i sardi, forse un primato per tricolori conseguiti con squadre estranee all’asse Milano-Torino. Soprannominato Pino ma anche “Coscia” per la robustezza degli arti inferiori, gioca a Firenze per quattro stagioni dal 1969 al 1973, giocando la Coppa dei Campioni 1969-70 conclusa nei quarti con lo sfortunato doppio confronto col Celtic di Glasgow, poi sconfitto nella finale di Milano dai nascenti astri olandesi con indosso quella notte i colori del Feyenoord, attraversando in viola anche il biennio di Liedholm. Terzino d’attacco di buona “gamba” e buona tecnica totalizza in viola 106 presenze 5 gol, non pochi per un difensore degli anni settanta. Adolescenti, stipati nel parterre di tribuna, ne ricordiamo uno in particolare messo a segno in una soleggiata domenica nel novembre ‘72, ancor più illuminata da un franco 3 a 1 sul Milan di Rivera e dell’ex Chiarugi: un sinistro su punizione “a foglia morta” nella porta della Ferrovia, esecuzione nel calcio di allora riservata a pochi eletti, che portò i nostri al momentaneo pareggio prima dei gol del Gringo Clerici, o del Sordo Clerici come preferite, e del giovane Mimmo Caso.
Stefano Salvatori, romano ma di scuola Milan nel quale militerà solo nella stagione 1989-90 collezionando poche presenze ma tanti trofei, di ruolo centrocampista, gioca nella Fiorentina in due diversi periodi: nella stagione 1988-89, allenatore Eriksson, quella che si concluderà con la qualificazione in Coppa Uefa grazie al vittorioso spareggio con la Roma a Perugia, e nel biennio 1990-1992, con Lazzaroni e Radice, mettendo a referto complessivamente 68 presenze e 2 gol. E’ tra i primi calciatori italiani a misurarsi anche all’estero prima come giocatore per tre stagioni ad Edimburgo negli Hearts of Midothlian dove vince una Coppa di Scozia, poi come allenatore di giovani calciatori in Australia.
Giancarlo Galdiolo, padovano di Villafranca, “Badile” secondo l’azzeccato epiteto coniato credo da un giornalista della Nazione, “Pappa” per i compagni di squadra e gli intimi in ragione della sua buffa pettinatura che ricordava quella della mitica maschera di Pappagone del grande Peppino. Terzino marcatore/stopper, fisico massiccio tagliato con l’accetta come suol dirsi, di non eccelse qualità tecniche allora non richieste per il ruolo, gioca ben dieci stagioni nella Fiorentina dal 1970 al 1980 mettendo insieme più di trecento partite che ne fanno in assoluto uno dei giocatori con più presenze in maglia viola, e tre gol in serie A di cui uno alla Juve; memorabile quello decisivo al Napoli nel pomeriggio di San Silvestro del 1977, Mario Mazzoni subentrato a Carletto Mazzone in panchina, rocambolescamente scaturito da un suo calcio di punizione svirgolato, in una delle più tribolate stagioni della Fiorentina che si ricordi con una salvezza raggiunta all’ultima giornata.
Fa il suo esordio in prima squadra con Pesaola prima che il Petisso venisse esonerato, in un’altra infelice stagione, quella 1970-71, dopo che si era messo in luce in una memorabile amichevole infrasettimanale giocata da una mista riserve/primavera della Fiorentina contro la Nazionale di Valcareggi in ritiro a Coverciano, nella quale annullò Pierino Prati, e della quale fummo diretti testimoni in uno stadio gremito all’inverosimile per una partita in fondo di allenamento e unito nel tifo a sostenere la mista della Fiorentina contro la Nazionale anche per la non digerita esclusione dai convocati di Luciano Chiarugi, pur nell’assenza di Gigi Riva bloccato dal gravissimo infortunio del Prater. Per la sua naturale simpatia, oltre che per la militanza, ha lasciato sicuramente una traccia profonda ed è impossibile ricordare i giganti che hanno calcato le aree di rigore della serie A di quel decennio, i Riva, i Boninsegna, i Bettega, i Prati, i Combin, i Savoldi, i Pulici, i Graziani, gli Altafini, gli Anastasi senza che prenda forma l’imponente figura del nostro Badile, a questi indissolubilmente legato in duelli memorabili senza esclusione di colpi e per questo egli stesso gigante.
Ugo Ferrante, di Vercelli, viola tra i più rappresentativi e destinato a rimanere nella storia anche per i trofei conseguiti che ne fanno uno dei giocatori più titolati. Gioca infatti dal 1963, quando arriva diciottenne proprio dalla Pro Vercelli, al 1972, la prima stagione del biennio Liedholm, sempre nel ruolo di libero nel quale eccelle soprattutto per il gioco aereo grazie al quale soprattutto realizzerà 7 gol in serie A di cui 6 in viola, attraversando il felice periodo della Fiorentina yé-yé nel quale nonostante la giovane età è titolare inamovibile nella linea di difesa fregiandosi nel 1966 delle vittorie in Coppa Italia e Mitropa Cup. Con i fondamentali innesti di Amarildo e Maraschi e con l’arrivo di Pesaola alla guida tecnica, nonostante le illustri cessioni dei nazionali Albertosi e Bertini e prima ancora di “Uccellino” Hamrin, la giovane Fiorentina forgiata da Beppe Chiappella conquista il secondo scudetto nella memorabile stagione 1968-69 nella quale il nostro gioca tutte e trenta le partite segnando un gol, quello del pareggio a Genova con la Sampdoria.
Indimenticabile il teatrino di cui fu protagonista alla Domenica Sportiva di Enzo Tortora la sera stessa dello storico 2 a o di Torino contro la Juve (11 maggio 1969) che ci consegnò il secondo scudetto, quando in diretta si sottopose al fatidico taglio di una ciocca dell’ormai folta e quasi ingombrante capigliatura che aveva per voto deciso di tagliare in caso di conquista dello scudetto. Colleziona complessivamente in maglia di viola 251 partite di cui 179 in Campionato con 6 gol e 6 presenze nella già ricordata Coppa dei Campioni 1969-70. Gioca anche tre partite in Nazionale maggiore facendo parte dei 22 ai Mondiali di Messico 70 dove peraltro non entra mai in campo chiuso dal cagliaritano Cera. Nel 71-72, anche a causa di un infortunio, viene accantonato da Liedholm che gli preferisce nel ruolo di libero Giuseppe Brizi, sino ad allora suo inseparabile compagno di reparto come stopper ed altro grande protagonista della Fiorentina di quel decennio. Conclude la carriera a Vicenza dove gioca altre quattro stagioni ritirandosi poco più che trentenne.
Nello Saltutti, umbro di Gualdo Tadino, di scuola milanista dove nella stagione 1966-67 aveva fatto il suo esordio in serie A, approda alla Fiorentina nel 1972 proveniente dal Foggia con l’improbo compito di far dimenticare “cavallo pazzo” Chiarugi passato proprio al Milan nella stessa estate, circostanza che peserà come un macigno per il buon Nello nel suo triennio in viola, nel quale si succedono alla guida tecnica Liedholm, Gigi Radice e il paron Rocco, l’allenatore che nei suoi anni giovanili a Milano lo aveva bocciato mettendolo ai margini della prima squadra. Ala sinistra, capace di disimpegnarsi anche negli altri ruoli dell’attacco, dotato di ottima velocità ma non altrettanto di tecnica con pregiudizio delle potenziali capacità realizzative, mette comunque insieme la cifra ragguardevole di 72 partite, più o meno equamente distribuite nei tre campionati, con 18 segnature anche importanti come i tre gol inflitti proprio al Milan. Ricordiamo in particolare il bel gol che aprì le segnature di un 2 a 1 contro la Juventus in un anticipo del sabato giocato nell’aprile 1973, vittoria poi suggellata dal primo gol in serie A del diciottenne Desolati che sostituiva l’indisponibile Clerici. Si trasferisce poi a Genova nella Sampdoria proseguendo una solida carriera che si protrarrà sino alle soglie dei quarant’anni per concludersi nella squadra del paese natale e collezionando oltre a 161 partite e 41 reti in serie A anche 296 partite e 73 reti in serie B.
Enrico Cucchi, di scuola interista e figlio d’arte, arriva a Firenze dall’Empoli nell’estate 1988, giocando in viola solo il campionato 1988-89, il secondo di Eriksson, quello del già ricordato vittorioso spareggio di Perugia con la Roma grazie all’unico gol di Pruzzo in viola, che ci assicurò la qualificazione in Coppa Uefa. Interno di centrocampo di buona tecnica e di buona corsa, un classico “8” di quel calcio. E’ la Fiorentina di Baggio e Borgonovo, ma Enrico si distingue nel corso di tutta la stagione come indiscusso protagonista con 32 presenze, oltre lo spareggio di Perugia, e 4 reti. Dopo l’ottimo campionato in viola la stagione successiva se lo riprende l’Inter. Oltre che del calciatore ci resta il ricordo di un ragazzo garbato, dallo sguardo gentile ed un po’ triste, quasi che un presentimento lo attraversasse. Se ne va giovanissimo a soli trent’anni quando un calciatore è nel pieno della sua maturità agonistica.
Stefano Borgonovo, centravanti dal fisico agile e dalla tecnica raffinata, abile nel gioco aereo e portato alla manovra, brianzolo di Giussano, si forma nel Como dove giovanissimo fa il suo esordio in serie A. Ben presto se lo accaparra il Milan del primissimo Berlusconi che lo lascia al Como prima di girarlo sempre in prestito alla Fiorentina nel 1988. Agli ordini di Eriksson forma col divin Codino la famosa, magica B2 che mette a segno 29 gol (15 Baggio e 14 Borgonovo) contribuendo in maniera determinante al raggiungimento della qualificazione in Coppa Uefa che ci vedrà nella stagione successiva sfortunati, e rapinati, protagonisti.
Nonostante la sua volontà di rimanere ancora a Firenze dopo una stagione che resterà la sua migliore, il Milan lo richiama sotto la Madonnina, ma ben presto un infortunio gravissimo al ginocchio lo ferma (solo 13 presenze e 2 gol) condizionandone probabilmente il prosieguo della carriera. Torna a Firenze nel ’90, acquistato a titolo definitivo dalla nuova Fiorentina dei Cecchi Gori, dove resta due stagioni nelle quali i ricorrenti problemi fisici ne limitano il rendimento mettendo a registro soltanto 37 presenze e 4 gol. Indimenticabili due pesantissimi suoi gol nel campionato 1988-89 entrambi al Franchi: il primo alla Juventus che suggella il definitivo 2 a 1 in zona Cesarini, di testa su calcio d’angolo di Baggio; il secondo contro l’irresistibile Inter di Trapattoni di quell’anno, il quattro a tre che ancora in zona Cesarini chiude la partita e sua personale doppietta, dando pieno sfoggio delle sue doti di rapinatore beffando Zenga su un retropassaggio di Bergomi.
Adriano Lombardi, il “Rosso” di Ponsacco, vera fucina di giocatori per la Fiorentina di quegli anni con i natali ai vari Chiarugi, Macchi, Piccinetti, Menichini; pochi probabilmente sanno di una sua parentesi in viola. Passa infatti da Firenze come una meteora: è chiamato nelle giovanili della Fiorentina nel ’65 ma già nella stessa stagione è ceduto al Cesena in serie C. La sua lunga carriera si svolge prevalentemente in provincia tra serie C e serie B sotto diverse bandiere facendo il suo esordio nella massima serie soltanto nel 1978 a 33 anni nell’Avellino, l’anno prima principale artefice da capitano della promozione in serie A dei lupi irpini con 31 presenze e 9 reti. Gli anni di Avellino, di cui diventa uno dei giocatori in assoluto più rappresentativi, sono gli anni della sua gloria sportiva tanto che nel 2008, a un anno dalla scomparsa, gli viene intitolato il Partenio.
Armando Segato, è veramente uno dei Giganti della Fiorentina al cospetto del quale è doveroso un ideale inchino. Per ragioni anagrafiche non lo abbiamo visto giocare, ma la testimonianza di chi è venuto anche un po’ prima di noi ce lo ha trasmesso come mediano di classe purissima, centrocampista dalla non comune intelligenza tattica, uno dei leader della più grande Fiorentina di tutti i tempi, quella del dott. Bernardini, del primo scudetto del 1956 (dove giocò tutte le partite) e dei quattro consecutivi secondi posti a seguire, della Coppa dei Campioni del 1957 scippata nella finale di Madrid dalle merengues.
Vicentino, cresciuto calcisticamente nelle giovanili del Torino, arrivato a Firenze nel 1952 dal Prato, nasce come ala sinistra, circostanza questa che giustifica “tecnicamente” la nostra scelta di assegnargli la maglia numero 11 in questa amara formazione. E’ proprio Bernardini a trasformarlo in mediano pur giocando spesso a supporto dell’attacco, talvolta addirittura, come ci raccontano amici a noi maggiori, andando ad occupare stabilmente la fascia sinistra del fronte d’attacco con la copertura del fido Maurilio Prini. Gioca a Firenze per otto stagioni dal 1952 al 1960, il periodo aureo della Fiorentina, collezionando complessivamente 255 partite di cui 231 in campionato con 16 reti. Veste per 20 volte la maglia azzurra, sesto di sempre per presenze tra i giocatori della Fiorentina, partecipando ai mondiali del 1954 in Svizzera. A Firenze resta indissolubilmente legato tanto che in riva all’Arno continuerà a risiedere la famiglia anche quando la carriera di calciatore prima e di allenatore poi lo porterà altrove. E campione sarebbe sicuramente stato anche sulla panchina come stanno a dimostrare le esperienze al Venezia che porta nel 1966 in serie A meritandosi l’assegnazione del Seminatore d’Oro e poi alla Reggina dove scopre e lancia un giovane Franco Causio e dove la domenica della sua ultima panchina, ormai malato, si congeda dal calcio con un commovente discorso di commiato.
A voi soprattutto piccoli grandi eroi che in ormai lontane domeniche da noi sempre ansiosamente attese avete indossato la maglia viola ignari dell’infausto destino che vi era più o meno prossimo, a voi che a carissimo prezzo, forse, avete pagato un’effimera gloria, la nostra commossa gratitudine per aver contribuito a tenere comunque accesa, nella buona e ahinoi più spesso cattiva sorte, la fiamma della passione per la Fiorentina.
Marco Pieri – Viola Club Franco Nannotti
(N. d R. – L’articolo è stato scritto prima delle esternazioni preoccupate di ex giocatori come Dino Baggio, Brambati, Raducioiu e Tardelli, a conferma che la paura è trasversale, pur in assenza di correlazioni accertate.)