Perché codesto “nuovo calcio” non funziona
Non potrebbe che esser di massa uno sport che si celebra in arene ben visibili e circolari, rumorose ma soprattutto tagliate dal tessuto urbano circostante; un muro di cemento verso l’esterno e dentro un muro ben denso di uomini a comporre un anello chiuso di eguali, omogeneo, terrorizzato dagli spazi vuoti. Uno sport che si basa sul cumulo di reti, dunque sull’accumulo di punti, a perpetuare quel simbolo primitivo del “mucchio di pietre” o del “tesoro”. Punti che necessariamente tendono a riproporre una gerarchia, ricreando una distanza epidermica dall’altro, per non essere toccati. Abbiamo scomodato il grande sociologo per comprendere come il calcio sia uno sport di squadra e di massa. Né più né meno.
Trasformare questo sport di massa in un prodotto d’intrattenimento digitale, tutto pantofolaio, in un mercato già saturo, è un percorso, per certi versi anche obbligato, certo non lineare. Un processo da gestire, mediare, controllare, financo correggere. La digitalizzazione, che porta con sé nuovi ed evidenti problemi di cui tutti solo adesso iniziano a percepire la profondità, non dev’essere affrontata con leggerezza o faciloneria o con quell’eccessivo entusiasmo che ne contraddistingue una certa narrazione. È un processo storico con precise ricadute sulla società, come singoli o nelle aggregazioni.
La spoliazione identitaria certificata dalla sfrondatura dai simboli societari, oggi detti loghi per dovere di brand identity – anche noi sappiamo parlare come quelli bravi – di ogni reminiscenza passatista, il campionato triturato e il mondiale d’inverno – il Qatar oggi va bene – che ulteriormente spezza il continuum sentimentale “nella vita di un tifoso” e, infine, come a frustrare gli ultimi dei mohicani, la perversa colpevolizzazione del tifoso in quanto tifoso che tifa e che naturalmente eccede o accende un fumogeno sono tutti parte di un unico processo che conduce alla dismissione di un modello di sport di massa.
Modello fino ad oggi efficace. O meglio ancora, l’unico modello che funziona – ci pieghiamo a questo lessico da contabili. Paradossalmente, l’unico calcio che rende, anche da un punto di vista economico, non è quello nuovo e scintillante da divano in solitario ma è quello del tifo dalla dura cervice. Che ancora puntella gli stadi.
In più, per fare un raffronto senza pretesa di esaustività, non sembrano funzionare, dato il calo degli utenti, prodotti d’intrattenimento come Netflix, al netto della qualità indubbia di certe serie e ammettendo che Netflix sia solo un “prodotto” e non parte di un’articolata industria culturale globale. Insomma, tutto lascia propendere che sia stato un salto nel vuoto o, per lo meno, che non ne siano state conteggiate le conseguenze o che non si sia tenuto in considerazione quanto il “vecchio calcio” funzionasse.
Venendo al caso Fiorentina, ciò che più colpisce della gestione Commisso, nonostante il presidente sia un magnate, abbia un impero e provenga da una comunità profondamente radicata nel sistema di potere statunitense, è la difficoltà nel leggere questi processi e trovarvi contromisure, correttivi, tempi e modi di mediazione. Si può sempre scegliere tra un salto nel vuoto e un percorso verso qualcosa di nuovo, che non è detto non sia desiderabile. Si può cercare un punto di caduta. Premettiamolo: si può ancora!
Se un processo è irreversibile – la digitalizzazione lo è – la mediazione, il corpo intermedio diventa ancor più prezioso. Non abbiamo risposte, né soluzioni, vivaddio. Quelle le lasciamo ai cantori entusiasti. Abbiamo interrogativi che ci portano a leggere il nostro sport come fatto primariamente sociale, oggetto di dinamiche economiche e di potere che non ci sono del tutto note ma che intuiamo esserci. Certamente il calcio è un mondo ancora troppo negletto. Si sa, scioccamente, la cultura di massa non ha spazio nell’accademia. E invece dovrebbe essere seguita e studiata, per le sue ricadute sulla società e per come riesce a farci comprendere o anche anticipare i suoi cambiamenti.
Lorenzo Somigli