Le radici anti-juventine

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Alla fine non ne ho potuto fare a meno. Il sentimento di antico tifoso della Maratona ha prevalso sull’inutile realismo e sulla saggezza di chi non può più dare cattivo esempio, aforisma di quel vero inno alla libertà ed alla gioia, mi dispiace per Beethoven, che è la Bocca di Rosa di Fabrizio De André. E sono corso ad acquistare il poster con la coreografia incriminata della nostra Curva.

Appena in tempo per essere subissato dalle richieste più impensate, dal proletariato in odore lumpen alle sofisticate élite metropolitane imbufalite contro Trump. Magicamente, è la magia del calcio che il mio grande amico Salvi definisce, parafrasando Gozzano, calcio mistero senza fine bello, le classi sociali sembrano dissolversi in questo abbraccio interclassista adversus Juve, nemmeno si trattasse di Annibale e noi fossimo novelli Scipione l’Africano, o più fiorentinamente Pier Capponi contro Carlo VIII. Niente ha potuto in questo caso il politically correct, è soft power americano che ben altri danni ha fatto, di fronte alla spontanea levata di scudi viola. Le decisioni della Lega hanno soltanto prodotto un risultato opposto. Il tardivo dimezzamento della multa nulla cambia, la frittata è fatta. Ed anche chi aveva arricciato il naso per legittima diffidenza verso una manifestazione che giudicava volgare, si è poi arreso di fronte alle inique sanzioni…e ne ha comprati due di poster. Non diventerà il Che Guevara di Andy Warhol, ma un oggetto di culto lo è già. Per alzarne il prezzo sul mercato nero basterebbe sequestrarlo con una bella azione di polizia innestando un effetto a catena e farne un caso politico nazionale, spedendo nelle pagine interne dei quotidiani i dazi, la Von der Leyen e l’Ucraina.

Tralascio ogni considerazione giuridica, c’è chi su queste colonne l’ha già fatto autorevolmente. Mi limito ad esecrare questa volontà senza posa di annichilire la passione calcistica, di criminalizzare ogni gesto che fuoriesca da una fruizione sterile ed asettica, fatto salvo lo sciocco effetto wow pompato dall’ineffabile marketing aziendale, di uno sport che nasce popolare, anche in funzione del controllo sociale perché no, e che quindi non frequenta in dress code il Royal Ascot. E qui non parliamo certo dell’intreccio tra tifo e delinquenza, ma di una espressione popolare identitaria tra l’ironia e la goliardia, così tanto fiorentina da essere assurta ad emblema di una rivalità storica. Oppure vogliamo cancellare qualsiasi emozione e ridurre la partita, già spezzettata tra il venerdì ed il lunedì, a mero entertainment…ma per questo c’è già lo smartphone e lo schermo televisivo che ormai si autodefinisce smart home entertainment.

Scrive Jack O’Malley su Il Foglio di sabato 5/domenica 6 aprile, grazie Fabio di avermelo segnalato: Da quando il calcio ha smesso di essere uno sport e ha cominciato a diventare una fucking esperience come il cibo, i viaggi e le mostre d’arte, l’ideale di chi lo gestisce è trasformarci in automi registrati e innocui a cui succhiare l’anima in cambio di culo al caldo e coscienza a posto. Non c’è da aggiungere altro.

Come rimpiango quelle radioline che chiamavamo transistor con cui seguivamo Il calcio minuto per minuto, sempre con l’ansia di una interruzione, scusa Ameri scusa Ameri, mi pare venne contestato una volta in tribuna coperta. Rivedo ancora il babbo che me la compra nel lontano autunno 1961, l’anno di Hidegkuti, era un negozio del centro, il commesso che sale sulla scala per arrivare allo scaffale, io al colmo della felicità non me ne separerò mai per molti anni, neanche al cinema con la ragazza insieme peraltro a tanti altri. Quando i viola non la Viola, repetita (forse) iuvant, segnavano si percepiva chiaramente un brusio esaltato, e la ragazza se ci voleva doveva pigliarci così e così anche la vecchia maschera che vigilava sullo spettacolo.

Identità, radici, appartenenza, mito, parole che lo scientismo contemporaneo sembra voler dimenticare e che invece fanno parte storicamente del più prezioso patrimonio italico. Il bagaglio di un grande filosofo napoletano, Napoli è la più grande capitale mediterranea, che un altro tifoso viola, più grande ancora perché non fiorentino di nascita, Marcello Veneziani, mi ha fatto ri-scoprire con un libro bellissimo ed impegnativo come tutte le cose che possiedono uno spessore e non sono consumabili con superficialità: Vico dei miracoli sulla vita e l’opera di Giambattista Vico.

Ed allora scendendo dall’empireo delle idee, cerchiamo di indagare senza pretese assolutistiche come nasce questa avversione anti-juventina, a cui qualcuno di noi nel lungo sessantotto attribuì addirittura un moto anticapitalista, trattandosi degli Agnelli.

Già nei miei capitoli sugli scudetti perduti apparsi sulla rivista rimarcai con i fatti che il Milan nel 1958-59, nel 1961-62 e per ultimo, ma lo perdemmo con l’infortunio di Batistuta a cui fece ma solo da corollario la fuga di Edmundo, nel 1998-99, ci soffiò il titolo. Soprattutto nel primo caso perché eravamo veramente i più forti quella stagione, i campioni del 1956 ringiovaniti con l’innesto in difesa di Castelletti e potenziati in attacco da Hamrin e da “diluvio” Petris.

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Gianfranco D’Onofrio e Wanda Pasquini al Grillo canterino

Per i particolari rimando all’archivio, a quelle puntate scritte col cuore e pure, consentitemelo, con una lucida analisi geopolitica. Non mancava di rilevarlo il Grillo Canterino, la strafamosa trasmissione delle 14:00 della domenica, Parla…Chiari ci rappresentava irresistibilmente. Gli avversari venivano canzonati in un idioma lumbard a sminuire le virtù e le possibilità di scudetto dei viola per venire severamente puniti a parole dai nostri eroi radiofonici del Viola Grillo Club. Erano i nostri radio days.

Intendiamoci, non sfuggiva il peso bianconero nell’economia calcistica nazionale, Sivori e Charles ci erano ben presenti, l’operaio-massa della Fiat che formerà lo zoccolo duro di Villar Perosa stava arrivando, c’erano il Milan e l’Inter. Quell’Inter che in una domenica di pallido sole del gennaio 1967 rintuzzò le nostre velleità di scudetto, bruciandoci subito con un goal opaco di Bedin, Boranga non incolpevole su un fallo di ostruzione, dopo che Brugnera ci aveva illusi, e con lo statuario Guarneri nel secondo tempo sotto la Curva Fiesole. Qualche mese dopo non ci rattristò la vittoria del Celtic a Lisbona nella finale di Coppa dei Campioni.

C’erano la provincia ed il contado che accerchiavano Firenze come nella strategia politica di Lin Piao, oggi l’onnipotente wikipedia lo scrive Lin Biao, con la B…mah! Allo stadio con la Juventus spesso i supporters bianconeri mischiati insieme a noi venivano apostrofati con epiteti che sottolineavano la loro provenienza da fuori le mura, cosa che non era sempre vera, anche se a onor del vero era improbabile che qualcuno intra moenia si qualificasse come juventino. Lo era il padre di un mio compagno di giuochi con i soldatini, e quando il babbo me lo presentò come tale lo fece con distaccata cortesia, lui sorridente mitigò quella colpa che per primo avvertiva. Tanto che ci sentimmo obbligati ad occuparci della educazione del figlio associandolo per molti anni in Maratona con tanto di bandiera viola con l’asta.

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L’antipatia crebbe negli anni settanta per lo strapotere in senso lato della Juve di Bettega a cui pure nei campionati dal 1972 al 1975 infliggemmo in casa tre sconfitte una più bella dell’altra. Era una Fiorentina che prometteva di ripetere la stagione yè yè e che fu devastata dagli infortuni irrecuperabili di tre campioni come Roggi, Guerini e Desolati, lasciando Antognoni a portare la croce fino alla svolta della stagione 1981-82. Anche su quest’ultima rimando ai miei scudetti perduti, capitolo 4 nella fattispecie, ma l’amarezza inestinguibile del meglio secondi che ladri è la ferita sempre aperta nella memoria viola che continuerà a trascinarsi finché esisterà un minimo di calcio identitario.

Né servì, diciamocela tutta, se non forse in piccola parte, la notte del Bernabeu, l’Italia mondiale di Pertini e Bearzot, a ricucire lo strappo. Far circolare la narrazione che Cagliari e Catanzaro erano il prezzo da pagare per non far disputare lo spareggio, mi è sempre sembrata una toppa peggiore del buco.  L’assenza di Antognoni nella finale, a cui era stato negato il goal regolarissimo col Brasile a suggello di una splendida partita, fu anzi vissuta come un ulteriore vulnus ed il nostro patriottismo calcistico ne subì le conseguenze. La doppia finale di Coppa UEFA del 1990 ed il caso Baggio con la relativa sollevazione popolare fecero il resto. I Pontello non potranno mai essere perdonati perché la sentenza Bosman è del 1995 e certifica una forma di apertura mercatista non ancora cogente a livello UE, l’URSS è formalmente ancora in piedi.

roberto baggio

E qui entriamo in un ordine di ragionamento che può piacere o meno, ma che è ancora valido nonostante l’analisi impietosa di O’Malley ed i consumi giovanili indirizzati e standardizzati dall’onnipotente smartphone. Le maglie delle squadre cosmopolite, quella del Barça è la più gettonata, che si vedono in giro adesso, soprattutto nel centro storico, al tempo degli Airbnb, erano inimmaginabili soltanto vent’anni fa. Zeffirelli ed Albertazzi ne sarebbero rabbrividiti. Eppure il tifoso viola, anche solo per slogan che per reale coscienza, continua ad avere una visione alta della Fiorentina. Il patrimonio genetico del Marchese Ridolfi passando per i campioni del 1956, Uccellino, quelli del 1969, Antognoni e Batistuta fino agli interpreti dei nostri giorni, alimenta una percezione di sé stesso al pari delle tifoserie più titolate, non ho detto dei club semplicemente più ricchi. Insomma, sì è vero, celebriamo la vittoria di Anfield, ma non come un miracolo, la sentiamo giustamente un episodio importante ma alla fine ci sentiamo offesi, non regalandogli troppe attenzioni, dal fatto che Salah giuochi nel Liverpool ed abbia apprezzato di più l’oro della perfida Albione dell’armonia della civiltà rinascimentale che Firenze rappresenta universalmente e che disegna il nostro paesaggio quotidiano.

Ed io per primo, totus viola, penso realmente che esprimiamo ancora e nonostante tutto un modello di vita superiore. Ed allora non mi resta che correre subito a comprarne un altro di poster…

Gianni Bonini – Viola Club Franco Nannotti

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