Il titolo è soltanto una provocazione. La superba Fiorentina del 1955-56 fu infatti talmente superiore che non incontrò ostacoli e vinse lo scudetto schiacciando gli avversari.
Le statistiche furono da Grande Torino. I viola conquistarono il titolo di campioni d’Italia con cinque giornate di anticipo e chiusero il torneo con dodici lunghezze di vantaggio sulla seconda classificata; roba da capogiro, soprattutto se consideriamo che ogni singola vittoria valeva solamente due punti.
Tanta letteratura è stata fatta per celebrare quella dolce e micidiale Fiorentina, tanto inchiostro è stato versato per descrivere i gol di Virgili, lo stile di capitan Rosetta, i funambolismi di Julinho e Montuori.
Ma allora che senso ha questo titolo? Quali furono mai le difficoltà incontrate da questa Fiorentina-carrarmato che passeggiò sul campo della Juventus (0-4) e che espugnò due volte San Siro con prestazioni ineccepibili? Quale pelo nell’uovo andiamo cercando?
Nessun pelo nell’uovo. L’intento di queste poche righe è soltanto quello di porre in rilievo un fatto dimenticato, o quantomeno sottovalutato: la Fiorentina del 1955-56 fu bellissima non perché stravinse lo scudetto, la Fiorentina del 1955-56 fu bellissima perché stravinse lo scudetto superando, con la classe e la forza del suo gruppo coeso, numerose insidie.
Non bisogna infatti dimenticare che la squadra viola, poco avvezza ai grandi traguardi e priva del sostegno di una stampa locale influente, dovette giocoforza scontrarsi con il peso politico ed economico di certe formazioni del nord, con le avversioni e le gelosie di alcuni noti giornali sportivi, e perfino con le diffidenze iniziali di vari suoi tifosi.
Sebbene gli incontri internazionali del precampionato, e in special modo la limpida affermazione contro la Dinamo Mosca, avessero fatto sbocciare grandi ambizioni, tra i sostenitori gigliati circolavano dubbi e domande:
Perché a Costagliola è stato dato il benservito? La matricola Sarti o il poco esperto Toros saranno in grado di sostituirlo?
Riuscirà Gratton a non risentire della mancanza di un compagno di reparto del calibro di Gren?
Riuscirà il riservato Julinho ad adattarsi al calcio italiano, ad abituarsi ai nostri rigidi inverni? E quel Montuori lì, chi lo conosce? Entrambi hanno buona tecnica, ma non avrà ragione Renzo de Vecchi a nutrire dubbi sulla loro “efficienza pratica”?
Questi e altri pensieri serpeggiavano tra i tifosi più scettici e il numero di questi ultimi si impennò dopo la prima partita di campionato. La Fiorentina si era fatta rimontare due reti dalla modesta Pro Patria; i viola avevano giocato quasi tutta la ripresa in dieci a causa di un infortunio di Bizzarri, ciononostante il pareggio finale scatenò aspre critiche. Alla squadra di Bernardini fu imputata la mancanza di carattere e qualcuno scrisse che Julinho, al di là del bel gol realizzato, era un giocatore narcisista e poco propenso alla manovra corale. Anche la scelta del ritiro “casereccio” di Abbadia San Salvatore, a scapito delle Alpi svizzere della stagione precedente, fu improvvisamente presa di mira: la preparazione atletica venne considerata inadeguata.
Sette giorni più tardi, la Fiorentina superò il Padova grazie a un calcio di rigore concesso nei minuti finali. Gli ospiti, fischiatissimi a fine gara dal pubblico toscano, avevano praticato un gioco rude e sleale, ma né questo né la vittoria servirono a frenare i giudizi negativi. I viola non erano piaciuti e tra i più bersagliati, oltre a Gratton, che non si era ben calato nel ruolo di ala in sostituzione di Bizzarri, c’era Montuori, ritenuto fragile e con scarsa tenuta atletica.
Il nostro Miguel ne soffriva, eppure la svolta era dietro l’angolo. Nel turno successivo la squadra fece visita alla Juventus e dopo solo tre minuti il sudamericano aprì le danze; e furono grandi danze… Un quarto d’ora più tardi Virgili firmò il raddoppio e al fischio finale il risultato fu un perentorio 0-4.
Fu la svolta della stagione. Dopo aver pareggiato contro l’Inter capolista, i gigliati vinsero per 2-0 sul campo del Bologna e surclassarono l’Atalanta. Alla settima giornata la Fiorentina agganciò l’Internazionale in testa alla classifica, distanziandola poi all’ottava, e da quel momento nessuno fu più in grado di resisterle.
Partita dopo partita, vittoria dopo vittoria, affossando i dubbi e le invidie dei detrattori, i viola accumularono un vantaggio sempre più consistente e il 6 maggio del 1956, ancora imbattuta e ormai da mesi saldamente al comando, la Fiorentina si laureò matematicamente campione d’Italia.
Lo scudetto aveva finalmente baciato Firenze e tutti i giornali celebrarono la trionfale cavalcata viola.
Anche Giordano Goggioli, capo dei servizi sportivi de La Nazione, omaggiò la squadra e, da fine giornalista qual era, lo fece sottolineando non solo i successi e i record inanellati, bensì pure i tanti ostacoli politico-ambientali che i calciatori avevano superato grazie alla loro classe, alla loro professionalità e alla loro amicizia.
Riportiamo un estratto dell’articolo di Goggioli, apparso l’8 maggio del 1956 su La Nazione, e già trascritto da un altro elegante giornalista fiorentino (il suo discepolo Sandro Picchi) in una pubblicazione dei primi anni Duemila:
La Lunga via della vittoria.
Hanno vinto: oggi la bandiera del calcio italiano si identifica con quella della giovane A.C. Fiorentina.
Non è stato facile, anche se oggi, nella gioia di una giornata tutta serena, che fa dimenticare antichi crucci, torti subiti, critiche ingiuste, ingiustificate avversioni, a guardare indietro sembra che il cammino fatto sia stato percorso sulla levigata strada dei trionfi. Ma è soltanto una felice illusione ottica: quella strada, prima di essere percorsa dall’irresistibile squadra “viola”, era un sentiero accidentato, pieno di rischi, di trappole, con la stanchezza annidata a ogni passo, seminata di ostacoli.
E nessuno, o pochissimi, credeva che avrebbe mai potuto essere allargata fino a diventare una via maestra: la via maestra – oggi possiamo dirlo – del calcio nazionale.
“Faremo del nostro meglio” ci disse Fulvio Bernardini quando, dopo l’ultimo allenamento di Abbadia San Salvatore, fu chiaro che la Fiorentina era davvero una grande squadra. Ma per vincere un campionato non bastano le qualità tecniche e agonistiche: occorre anche l’abitudine ad un certo clima rarefatto che ancora, ed io per primo, non abbiamo.
Subito, però, come un coscienzioso artigiano prima di prendere l’impegno definitivo, i “viola” consegnarono all’esigente pubblico fiorentino un “capolavoro”: la partita con la Dynamo Mosca.
Ma il mondo calcistico nazionale, troppo abituato e da troppi anni a considerare Milano e Torino come sole possibili sedi delle più alte espressioni del “football” italiano, registrò l’avvenimento senza capirne o senza volerne capire la vera sostanza.
Soltanto una schiacciante evidenza di altri e numerosi fatti poteva persuadere i troppi sordi che non volevano sentire. Una battaglia difficile, da combattere su tanti fronti, contro le più tenaci prevenzioni, contro i più antichi prestigi, […] contro la forza economica di alcune grandi società settentrionali, perfino contro la stampa specializzata che, avvezza agli ultimi linguaggi nero-azzurro, rosso-nero, granata, bianco-nero, non era preparata a considerare quello viola più che un “divertente balletto”.
Firenze pareva impreparata alla grande battaglia, priva, tra l’altro, di una stampa sportiva che sostenesse le ragioni del calcio fiorentino attraverso la vasta organizzazione di antichi quotidiani specializzati.
Poi, invece, il corso degli eventi è perfino precipitato; partita su partita la squadra “viola” si attestava sempre più solidamente in vetta alla classifica, il distacco dalle inseguitrici si faceva maggiore ogni settimana, i critici non sempre oggettivi furono costretti ad arrampicarsi sugli specchi per diminuire la portata dei successi della fiorentina, finché ad un certo punto la conquista dello scudetto apparve addirittura facile.
I “viola”, impostisi su tutti, presero la corsa, ridussero al silenzio i detrattori, convertirono i critici più sereni, sanzionarono la validità delle loro vittorie con partite tecnicamente luminose e nessuno ha potuto più fermarli […].
Alla costruzione di questo snello e pur solidissimo edificio hanno contribuito in molti […]. Il presidente Enrico Befani e l’allenatore Fulvio Bernardini […], due figure notevoli, due temperamenti diversi […].
Quanto ai giocatori, il meno che possiamo dire è che, a parte le loro qualità tecniche, formano un complesso d’eccezione soprattutto dal punto di vista morale.
Ricordiamo un aneddoto raccontatoci da Rosetta: lo Sparta, una squadretta novarese in cui Rosetta cominciò da dilettante la sua carriera, doveva giocare contro il Borgomanero. Il nostro futuro grande centromediano si lasciò persuadere da un compagno a disertare l’incontro per recarsi in un paese vicino dove le loro prestazioni sarebbero state pagate. Mentre, però, i due percorrevano la strada in bicicletta furono raggiunti dall’allenatore in motocicletta,
“Tornate indietro” – disse quello e, voltata la sua macchina, non aggiunse altro. I due transfughi, incapaci di aprir bocca, ubbidirono mogi mogi.
“Non dimenticherò mai più quel pezzo di strada al ritorno” – ci disse Rosetta a commento del suo racconto.
Oggi tutti gli sportivi sanno che non l’ha dimenticato davvero: lo sport come vita è rimasto il suo costante costume anche ora che è un giocatore professionista.
E così è per tutti gli altri, anziani e giovanissimi, da Chiappella a Sarti, da Segato a Cervato, a Magnini, a Julinho, a Montuori, a Gratton, a Virgili, a Toros, a Prini, a Bizzarri, a Orzan, ai componenti le squadre minori, delle riserve e dei ragazzi, per i quali la Fiorentina è un’altra famiglia retta dalle stesse regole di una famiglia un po’ all’antica in cui nessuno sgarra all’orario dei pasti e del riposto, in cui non esistono segreti, in cui l’affetto e la confidenza non negano il più rispettoso ossequio verso i maggiori.
Un clima d’eccezione, dati i tempi, incredibile se non ne avessimo le prove quotidiane, ma che è stato quasi certamente il fattore di maggior peso per la realizzazione della grande impresa.
Ora bisogna che tutto questo continui […], che diventi tradizione, non solo per le fortune del calcio di Firenze, ma anche di quello italiano, cui, forse, per sperare nella rinascita e per tornare sulla strada percorsa dai campioni del mondo del 1934 e del 1938 e del grande Torino, non tanto mancavano gli atleti, quanto un nuovo, fresco costume di vita che dello sport avesse, oltre il nome e l’apparenza, la profonda sostanza morale.
Domani, forse ci accorgeremo che questa è la vittoria più bella della Fiorentina, perché gli “scudetti” passano, ma lo sport resta.
Ai campionissimi del ’56, alla loro gratitudine verso Firenze, e a quella reciproca amicizia che, talvolta commuovendosi, dimostrarono anche nei decenni successivi è dedicato questo articolo.
Filippo Luti