Il prossimo 4 maggio saranno 75 anni da quel grigio e nebbioso pomeriggio che inghiottì sui contrafforti della Basilica di Superga il trimotore Fiat 212 Elce che riportava a casa da una partita amichevole giocata a Lisbona il Grande Torino.
E’ una data, crediamo, ben impressa in tutti gli appassionati di calcio, sicuramente in coloro che appartengono come noi alla generazione baby boomer per la viva narrazione ricevuta da chi di quella tragica giornata era stato diretto testimone, e questo a prescindere dall’appartenenza e fede calcistica.
E non c’è mese di maggio che arrivi senza che il pensiero corra a quel pomeriggio e ci risuoni nella mente come un’antica filastrocca “Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola”.
Un undici che è appartenuto ed appartiene ancora, a distanza di tre quarti di secolo, a tutta l’Italia calcistica, il cui tragico destino ha elevato a mito e trasferito in una dimensione leggendaria fissandolo per sempre in una memoria condivisa.
Di quell’Italia non ancora uscita dalle distruzioni e lacerazioni della guerra ma nello stesso tempo piena di slancio e di volontà di tornare a vivere, il Torino di Valentino Mazzola era diventato rappresentazione e simbolo vincente, ed enorme fu l’impressione suscitata nel paese dalla sciagura che provocò un lutto che andò ben oltre l’ambito sportivo.
Si trattava sicuramente di una squadra fortissima, forse la più forte d’Europa, composta in ciascun ruolo da fuoriclasse la cui fama, sia pure in quel calcio dell’immediato dopoguerra privo di competizioni internazionali, superava i nostri confini e che soltanto un anno dopo, ai mondiali del 1950 in Brasile i primi dopo la sospensione bellica, avrebbe pressoché in blocco formato la squadra azzurra con grandi probabilità di successo.
E proprio per il prestigio che la squadra granata godeva anche all’estero fu organizzata la partita di Lisbona che doveva celebrare l’addio al calcio di Francisco Ferreira, colonna e capitano del Benfica, ma che il destino volle invece passasse alla storia come l’ultima partita giocata dal Grande Torino.
L’antefatto fu in occasione di una partita amichevole giocata a Genova tra le Nazionali di Italia e Portogallo nel febbraio precedente nella quale appunto Ferreira, prossimo al ritiro, confidò a Valentino Mazzola che il proprio club gli aveva assicurato l’incasso della partita d’addio, prova di quanto allora i guadagni dei calciatori fossero ben lontani da quelli di oggi, e che avrebbe desiderato giocare proprio contro il Torino; Mazzola si adoperò generosamente in tal senso e la società non fu da meno, tant’è che pretese soltanto il rimborso delle spese di viaggio pur di lasciare quanto più possibile al giocatore, e la partita, quella maledetta partita, fu fissata il 3 maggio.
Il paradosso è che Francisco Ferreira, nonostante il peso che immaginiamo dovrà aver sentito per essere stato l’involontaria causa di un tale tragedia e che forse l’avrà oppresso per il resto della sua vita, continuò a giocare per altri tre anni rendendo ancora più assurda la vicenda con un gesto che ci è sempre parso avesse in sé un che di empio, nella sua prima accezione, ovvero quella di atto che offende il sentimento religioso, e poco importa che abbia inviato dei soldi alle famiglie delle vittime.
E’ una storia sulla quale ci siamo voluti soffermare perché è sempre rimasta abbastanza sullo sfondo nella copiosa e multiforme narrazione della fine del Grande Torino, abbiamo visto anche degli sceneggiati televisivi, come se il raccontarla colorasse di beffardo in qualche modo immiserendo il tragico destino di tanti campioni stroncati nel tempo della loro giovinezza.
Familiari ci sono stati tutti i nomi della filastrocca grazie ai racconti paterni ed il pensiero va al babbo in quei primi anni del secondo dopoguerra quando lo immaginiamo, giovane, correre allo stadio per vedere la sua Fiorentina contro i campioni d’Italia del Torino col loro mitico quarto d’ora, rituale nel quale l’impossibile calcistico si realizzava, imperdibili partite, e poi confuso sugli spalti del Comunale zeppi sino all’inverosimile di uomini in cravatta giacca e cappello come le fotografie dello stadio di quegli anni ci mostrano.
Siamo andati a rivedere i tabellini di quelle partite che, avari per la Fiorentina, confermano la forza dei granata: tre partite (nel 1945-46 la Fiorentina infatti non incontrò il Torino partecipando al girone del Centro-Sud) la prima il 25 maggio 1947 risultato 0-4 con gol di Ferraris II, Mazzola, Castigliano e Loik, la seconda il 27 maggio 1948 risultato 1-2 vantaggio viola con Galassi e rimonta granata con Menti su rigore e Mazzola, la terza e ultima il 19 dicembre 1948 finalmente senza sconfitta con un pareggio a reti bianche.
Nomi quelli di Valerio Bacigalupo, Aldo Ballarin, Virgilio Maroso, Giuseppe Grezar, Mario Rigamonti, Eusebio Castigliano, Romeo Menti, Ezio Loik, Guglielmo Gabetto, Valentino Mazzola, Franco Ossola, nei quali succedeva ci si immedesimasse da ragazzini nelle nostre fantastiche partite popolate di campioni del presente e del passato, partite che finivano solo all’imbrunire, interminabili quelle di giugno a scuola finita e prima di partire per le vacanze.
Veri e propri eroi che in cortile o nei campetti improvvisati sul limitare della nostra periferia prendevano il posto, avendone per noi pari dignità, dei guerrieri e degli eroi achei e troiani che si combattevano sotto le mura di Ilio in quei lunghi pomeriggi dimenticati dentro le pagine delle storie di Laura Orvieto.
Il nostro favorito era Eusebio Castigliano, nome e cognome entrambi evocativi di un carattere al tempo stesso pietoso e guerresco, molto celebrato nei racconti del babbo come mediano ambidestro di grandi doti atletiche e tecniche, aveva giocato anche da mezz’ala, dotato di un tiro potente e preciso che nella classifica marcatori gli consentiva di portarsi spesso a ridosso degli attaccanti; e il caso ha voluto che nei nostri effimeri trascorsi calcistici se ne sia ripetuto il percorso da mezz’ala a mediano sinistro anche noi, nella nostra modestia, dotati di un discreto tiro.
Al di là del gemellaggio che da diversi anni unisce la Fiorentina al Torino, gemellaggio non fortunato stando ai risultati messi a referto ed alla fatica con cui veniamo a capo, quando ci riesce, delle partite coi granata, un doppio filo ci lega al Grande Torino, quello che oggi ricordiamo.
Il primo, doloroso, riporta alla figura di Romeo Menti detto “Meo”, preziosa ala destra anche della Nazionale dalle notevoli capacità realizzative, autore tra l’altro dell’ultimo gol realizzato dal Grande Torino nella partita di Lisbona del 3 maggio; prima di approdare alla corte del Presidente Ferruccio Novo giocò tre anni nella Fiorentina che lo prelevò dal Vicenza, sua città natale, nel 1938 quando si trattò di allestire la squadra che doveva ritornare in serie A, traguardo alla fine della stagione raggiunto.
Di quella Fiorentina fu senz’altro il giocatore migliore, protagonista anche della vittoriosa coppa Italia del 1940, primo trofeo conquistato nella storia viola.
A Firenze, dove tornò a giocare per un anno nella stagione 1945-46 alla ripresa dell’attività, trovò moglie e mise su famiglia che a Firenze continuò a risiedere anche nei suoi anni di Torino a dimostrazione di un legame fortissimo con la città.
Non solo Firenze ma anche la Fiorentina, tanto che quando il commissario tecnico Vittorio Pozzo fu chiamato a salire sulla collina di Superga con il pietoso compito di riconoscere i corpi straziati dei caduti, il primo ad essere riconosciuto fu Meo e proprio perché all’occhiello della giacca portava lo stemma della Fiorentina dal quale non si era mai voluto staccare.
L’altro, più felice, è quello che ci riporta invece alla figura di Francesco Rosetta, nove stagioni e 245 partite nella Fiorentina di cui divenne capitano conquistando nel 1956 il primo scudetto della storia viola con l’undici del dott. Bernardini quello di Sarti, Magnini, Cervato, Chiappella, Rosetta, Segato, Julinho, Gratton, Virgili, Montuori, Prini, la filastrocca a noi più cara.
Formatosi calcisticamente nel Novara, nel 1946 era passato al Torino allenato da Luigi Ferrero, circostanza questa per il nostro Francesco salvifica, dove gioca 13 partite conquistando lo scudetto, il terzo della serie del Grande Torino contando anche quello del 1942-43 ultimo torneo prima della sospensione bellica.
Nel campionato successivo gioca nell’Alessandria in una stagione sfortunata per i grigi che culmina con la retrocessione della squadra in serie B nonostante il suo valido contributo.
Ma Rosetta non può scendere in cadetteria e tutto sembra concorrere per il suo ritorno al Torino dove Ferruccio Novo lo accoglierebbe a braccia aperte, ma il destino, questa volta benigno, ha disposto che Luigi Ferrero, sì proprio l’allenatore che due anni prima lo aveva avuto al Toro e che lo stimava, sia nel frattempo diventato l’allenatore della Fiorentina e, facendo di tutto per portarlo in viola, probabilmente il suo salvatore.
Senza Ferrero e l’ingaggio nella Fiorentina forse anche Rosetta sarebbe salito su quell’areo per Lisbona per una trasferta senza ritorno allungando così la lista dei caduti di Superga.
Chissà se tra altri 75 anni il ricordo di questa squadra sarà ancora altrettanto vivo, ma siamo propensi a credere di sì, così come pensiamo lo sarà anche per le altri grandi squadre che hanno fatto la storia del calcio che abbiamo conosciuto o che ci è stato raccontato e anche delle squadre che abbiamo amato e che pur non entrando nel firmamento delle grandi ci hanno fatto gioire; come domani un vero tifoso della Fiorentina non saprà recitare la filastrocca Superchi, Rogora, Mancin, Esposito, Ferrante, Brizi, Chiarugi, Merlo, Maraschi, De Sisti, Amarildo?
Piuttosto è destinato a confondersi il ricordo del calcio di oggi e ancor più del calcio che ci aspetta, con i calendari intasati di competizioni che di anno in anno si moltiplicano e di cui perdi cognizione, le rose di trenta giocatori oggetto di un turn over continuo a causa di un mercato di fatto sempre aperto, le sostituzioni plurime, il prevalere delle ragioni del marketing che ogni anno stravolge l’immagine delle squadre, i grandi giocatori diventati aziende che appartengono solo a loro stessi senza una identità che li accosti a una comunità e a una squadra, che li collochi in una formazione mandata a memoria dentro una foto o un poster, sei calciatori in piedi e cinque accosciati.
Resteranno dei nomi magari altisonanti privi però dei colori di una maglia ed estranei alla passione di un popolo che ancora li sente suoi e li fa vivere, così come solo nomi elencati nei sempre più affollati albi d’oro saranno quelli delle grandi squadre.
No, il Grande Torino non correrà questo rischio; entrato nella leggenda attraverserà il tempo accompagnando le generazioni come Indro Montanelli in un suo memorabile epitaffio pubblicato sul Corriere della Sera il giorno dei funerali riuscì mirabilmente ad esprimere con la sua penna illuminata: “Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto “in trasferta”.
Marco Pieri – Viola Club Franco Nannotti