Il Dottore dello scudetto

Condividi sui social

FULVIO BERNARDINI: IL DOTTORE DELLO SCUDETTO

Fulvio Bernardini nacque a Roma il 28 dicembre 1905, ma i genitori lo registrarono all’anagrafe il 1 gennaio 1906. Era una pratica usuale per far “guadagnare” un anno al bambino. Bernardini allenò la Fiorentina dal 1953 al 1958, per un totale di 203 partite. L’esordio avvenne il 25 gennaio 1953 (Spal-Fiorentina 1-1), l’ultima presenza il 25 maggio 1958 (Fiorentina-Padova 6-1). Sulla panchina gigliata vinse lo scudetto 1955-1956, la Coppa Grasshoppers 1952-1957, fu finalista nella Coppa dei Campioni 1956-57 ed ottenne questi piazzamenti in serie A: 7° nel 1952-53; 3° nel 1953-54; 5° nel 1954-55; 2° nel 1956-57; 2° nel 1957-58.

“Bernardini condensava in sé la scienza calcistica di mezzo secolo” (Sandro Picchi).

Il primo scudetto della Fiorentina porta la firma originale di Fulvio Bernardini, figura leggendaria del calcio italiano. Fu uno dei migliori calciatori della sua generazione, ma anche un apprezzato giornalista sportivo, un pensatore del gioco e un tecnico capace di conquistare il campionato sia a Firenze che a Bologna. A settant’anni venne scelto per rilanciare la Nazionale che, sotto la guida di Bearzot, sarebbe poi arrivata al trionfo mondiale del 1982 dopo il quarto posto conquistato ai Mondiali in Argentina.

Bernardini era, nel panorama calcistico dell’epoca, un personaggio fuori dagli schemi: univa talento e intelligenza, una notevole cultura e un carattere polemico ed era tra i pochissimi giocatori del tempo ad aver conseguito una laurea (in Scienze economiche e commerciali all’Università di Roma).

Cresciuto nella Lazio, dove aveva debuttato a diciassette anni, inizialmente come portiere prima di diventare attaccante, fu acquistato dall’Inter nell’estate del 1926. Esordì in Nazionale ventenne, nel ruolo di centromediano, il fulcro del gioco secondo i principi del Metodo (la disposizione tattica indicata dalle lettere WW che richiamavano lo schieramento in campo. Oggi si potrebbe definire un 2-3-2-3). A 27 anni, dopo 26 presenze, concluse la sua carriera azzurra. Il 28 ottobre 1932, a Praga, indossò la maglia della Nazionale per l’ultima volta. Centromediano elegante e di grande qualità, entrò in contrasto con il commissario tecnico Vittorio Pozzo, che lo accusava di avere una visione troppo “elevata” del gioco, tale da mettere in difficoltà i compagni. Una dinamica che lo stesso Bernardini aveva spiegato già un anno prima:

“nessun diverbio ho mai sognato di avere col Commissario Pozzo, pel quale professo il massimo rispetto e nutro la più cordiale amicizia … Il Comm. Pozzo ha parlato con me prima della partita di Torino, mi ha parlato lealmente e sinceramente come sempre, spiegandomi le ragioni tecniche che a suo avviso rendevano necessaria la mia esclusione dalla squadra. Il Comm. Pozzo dopo aver dichiarato di vedere in me attualmente il più a posto dei giocatori italiani, mi ha affermato che proprio nel fatto di essere io a un livello superiore agli altri, va ricercato il motivo del mio sacrificio ed ha aggiunto che per essere compreso dai compagni di squadra, dovrei rinunciare a qualcuna delle caratteristiche più salienti del mio giuoco” (“Il Calcio e il Ciclismo Illustrato” n. 4/1931).

Nel 1928 Bernardini approdò alla Roma, dove rimase undici stagioni diventando una bandiera giallorossa. Concluse poi la propria carriera, dopo sedici anni giocati ai massimi livelli, assumendo il doppio ruolo di calciatore e tecnico della Mater (Gruppo Sportivo Motori Alimentatori Trasformatori Elettrici Roma), formazione capitolina di Serie C che, nel 1942-43, conquistò la promozione in Serie B applicando il “sistema” (WM oggi rappresentabile con un 3-2-2-3) lo schema tattico che Bernardini prediligeva.

Nel luglio del 1944, dopo la Liberazione di Roma, fu nominato Commissario Straordinario della FIGC, con l’incarico di ricostruire il calcio nell’Italia liberata. Rimase però in carica solo quattro mesi, a causa – come ricorda Antonio Ghirelli ne La storia del calcio in Italia – della sua “totale incapacità per la diplomazia e l’intrigo”.

Bernardini fu un autentico teorico del gioco. Giornalista prima ancora che allenatore, possedeva una conoscenza del calcio così profonda da valergli il soprannome, coniato da Gianni Brera, di “Dottor Pedata”. Raccolse in un celebre decalogo le norme fondamentali per interpretare correttamente il calcio moderno basato sul WM.

Nel 1925 l’IFAB modificò la regola del fuorigioco: per evitare l’offside non servivano più tre avversari davanti al giocatore, ma due. In questo nuovo contesto Herbert Chapman, tecnico dell’Arsenal dal 1925 al 1934, elaborò il WM arretrando il centromediano sulla linea dei terzini e trasformandolo in quello che venne chiamato stopper. Lo schema prevedeva tre difensori (due laterali e uno centrale), due mediani di contenimento, davanti ai quali agivano due mezzali, due ali e un centravanti. Il sistema introduceva accoppiamenti a uomo su tutto il campo e generò anche la celebre “diagonale”, movimento difensivo utile a intervenire sull’attaccante sfuggito al marcatore diretto. In Italia il WM si consolidò con il Grande Torino e si diffuse su larga scala solo nel dopoguerra; prima del conflitto erano poche le squadre a utilizzarlo, le apripista erano state Fiorentina e Genoa.

Bernardini venne chiamato alla guida della Roma nella stagione 1949-50. Era la sua prima esperienza su una panchina di primo piano, che però si concluse con un esonero a tre giornate dal termine del campionato. L’anno successivo prese in corsa la Reggina, nel girone D di Serie C, riuscendo a salvarla. Successivamente fu scelto per allenare il Vicenza in Serie B su suggerimento del marchese Antonio Roi, ex presidente biancorosso fino allo scoppio della guerra. Nel 1941 Roi faceva parte, assieme ad Agostini, Pozzo e Guido Cavalli, della Commissione Preparazione Tecnica della FIGC, presieduta dal marchese Ridolfi. Il rapporto molto stretto tra Roi e Ridolfi favorì vari scambi di giocatori tra Vicenza e Fiorentina, compreso il passaggio di Romeo Menti ai viola nel 1938.

Nel gennaio 1953 la Fiorentina decise di sostituire l’allenatore Renzo Magli. La scelta del presidente Befani sorprese tutti: Fulvio Bernardini, che stava allenando il Vicenza in serie B. All’epoca un allenatore poteva rescindere il contratto e cambiare squadra nel corso della stagione pagando una penale. Bernardini ricordava spesso che, per salire di categoria, ci rimise 200.000 lire di tasca propria: la clausola per liberarsi dal Vicenza era di un milione, mentre la Fiorentina gli riconobbe 800.000 lire per la metà di stagione. A fare da intermediario fu il giornalista de “La Nazione” Beppe Pegolotti. Fra i due non c’era simpatia, ma avevano un passato comune di calciatori. Venne detto e scritto che Pegolotti avesse rotto una gamba a Fulvio nella gara Roma-Livorno del 26 maggio 1929, ma in realtà si trattò di un episodio molto minore.

Quando Befani incontrò Bernardini per la prima volta, gli disse: “Vede, sono nuovo come dirigente, e non molti hanno parlato bene di lei. Ma ho fiducia in quei pochi. Venga a Firenze e non se ne pentirà”. Tra coloro che lo avevano raccomandato c’era proprio Luigi Ridolfi, il “babbo” della Fiorentina.

Bernardini accettò e si mise al lavoro con grande serietà. Trovò una squadra in difficoltà ma con una base difensiva già solida (Costagliola, Magnini, Cervato, Chiappella, Rosetta) formata e assemblata negli anni precedenti da Luigi Ferrero. Il nuovo tecnico non tollerava interferenze nelle scelte tecniche, e questo generò inizialmente qualche frizione: a Firenze le “voci da ascoltare” erano molte e continue. La sua fortuna, oltre alla competenza, fu l’appoggio totale del presidente Befani e del segretario Giachetti. Nella stagione successivo (1953-54) dette un’impronta anche al centrocampo con l’uso continuativo di Segato e l’arrivo di Gratton. La squadra lottò per il titolo, ma ebbe un crollo finale arrivando al terzo posto. Era necessario completarla, costruendo un attacco capace di portare la Fiorentina a vincere il titolo. Nel 1954-55 venne acquistato il giovane centravanti Virgili dall’Udinese. Mancavano gli ultimi pezzi del mosaico.   

L’arrivo di Julinho e Montuori, insieme all’intuizione di trasformare Prini in ala tattica, segnò la svolta nella storia gigliata creando la squadra dello scudetto del 1955-56. Ma il contributo di Bernardini andò oltre: in quegli anni rifinì e semplificò il sistema, offrendo al calcio italiano un’alternativa credibile al catenaccio.

Bernardini con la Fiorentina per la prima volta campione d’Italia nella stagione 1955-1956

“L’anno calcistico 1955-56 si risolve con la vittoria della Fiorentina, che non perde se non all’ultima giornata, sul campo dell’avventurato Genoa. Allenatore dei viola è Fulvio Bernardini, finora assai meno fortunato di quanto non meriti. Bernardini lascia Vicenza, dove ha creato un bellissimo vivaio, e assume la guida della Fiorentina sul finire del campionato 1954-55 [NdR errore, si tratta in realtà del 1952-53]. Trova fatte la difesa e la mediana, già disposte a WM da Ferrero, compone la prima linea con un asso brasiliano, Julinho, all’ala destra, il solido Gratton a interno destro, Virgili-Pecos Bill a centravanti, l’interno sinistro italoargentino di scuola cilena Miguel Montuori, l’ala sinistra di appoggio Prini. Difesa e mediana della Fiorentina sono state già scoperte e maltrattate da Lajos Czeizler [NdR allenatore della Nazionale alla Coppa del Mondo 1954]. Bernardini predica male, in omaggio al sempiterno WM, e tuttavia razzola molto bene: il suo modulo anticipa quello che verrà celebrato dal Brasile campione mondiale 1958.

In Italia, guai a chi parla di catenaccio (siamo ancora a queste ignominie controriformiste): ma Bernardini protegge lo stopper Cecco Rosetta con Chiappella e Cervato, che spesso lascia l’ala destra avversaria alla propria ala sinistra, il nominato Prini. In centrocampo, stabili, il mediano sinistro Segato e l’interno destro Gratton. L’ala destra Julinho gioca pure in appoggio lungo l’out. L’interno Montuori è centrocampista finto: in realtà è una punta, ed avviandosi a concludere effettua una diagonale sinistra-destra, proprio là di dove si sposta Virgili per creargli spazio adeguato. Il calcio effettuato dai fiorentini è di primo ordine in campo mondiale, non solo italiano: peccato che Julinho e Montuori non siano di Prato o Pontassieve. Quando la nazionale torna a galla, questa deplorazione è di tutti i tifosi ragionevoli”.

Gianni Brera (Storia critica del calcio italiano, p. 265, Bompiani, 1975).

Fulvio parlava poco con i suoi giocatori, ma sapeva collocarli in campo in modo impeccabile. Era abilissimo anche nello stemperare la pressione e nel trasmettere alla squadra un atteggiamento superiore: “Concentratevi sempre sul vostro gioco, non sugli avversari”.

In realtà conosceva alla perfezione le qualità di tutti, e prima delle partite, quasi senza parere, “di sfuggita”, spiegava a ogni calciatore le caratteristiche del diretto rivale.

Più che un tecnico da campo, Bernardini era un vero stratega e un fine gestore del gruppo, pur avendo studiato approfonditamente i metodi di preparazione fisica. La settimana tipo della Fiorentina sembrava persino troppo semplice: lunedì riposo; martedì partita di pallavolo con attaccanti contro difensori; mercoledì sfida tra titolari e riserve; giovedì lavoro atletico e pallone; venerdì rifinitura, spesso con sessioni di pallacanestro. L’obiettivo era mantenere i giocatori in forma senza affaticarli e tenere vivo l’interesse negli allenamenti.

Bernardini introdusse anche il cosiddetto “principio discriminativo”, cioè allenamenti personalizzati per ciascun atleta, così da mettere ognuno nelle condizioni di rendere al massimo.

Così descrisse quella Fiorentina Vasco Pratolini, in un articolo su Il Campione n. 18/1956:

“Questa Fiorentina è il capolavoro creato da Bernardini, abruzzese di Roma; nelle sue file c’è un brasiliano e un cileno, il suo centrattacco è friulano, e via dicendo. Non meno, nulla più del suo gioco è degno di simboleggiare certe virtù dei fiorentini. Il carattere del suo gioco, voglio dire fondamentalmente pratico: avaro (primo: guardarsi le spalle), mai affidato al caso ma al ragionamento; è su queste premesse: una fantasia sempre accesa e una continua invenzione”.

La Fiorentina del 1956 fu l’undicesima squadra ad iscrivere il proprio nome nell’Albo d’oro del campionato italiano. Questa la situazione delle vittorie dopo il successo gigliato: Juventus e Genoa 9 scudetti; Inter e Pro Vercelli 7; Torino e Bologna 6; Milan 5; Casale, Novese, Roma e Fiorentina 1. La critica del tempo era convinta che dopo una simile affermazione, con dodici punti di vantaggio sulla seconda e stabilendo numerosi record, la Fiorentina, squadra ancora giovane, avrebbe dominato la serie A per qualche anno. Non andò così, seguirono quattro secondi posti, i primi due ancora con Fulvio Bernardini in panchina. Ma questa è un’altra storia…

Massimo Cervelli – Commissione storia Museo Fiorentina

Leggi altri articoli
Torna in alto