Arrivederci,
dammi la mano e sorridi
senza piangere
arrivederci
per una volta ancora
è bello fingere
abbiamo sfidato l’amore
quasi per gioco
ed ora fingiam di lasciarci
soltanto per poco
arrivederci
esco dalla tua vita
salutiamoci
arrivederci
questo sarà l’addio
ma non pensiamoci
con una stretta di mano
da buoni amici sinceri
ci sorridiamo per dirci
arrivederci
(Umberto Bindi, Giorgio Calabrese, 1959)
Addio agli anni cinquanta del nostro amore. Abebe Bikila li chiude con la sua marcia trionfale nel più bel tramonto settembrino mai visto al mondo, assistono maestosi le strade imperiali e l’Arco di Costantino sotto cui sfila vittorioso quasi ad affermare la legge del contrappasso. La strada della liberazione per i suoi popoli è ancora lunga, ma quelle Olimpiadi indimenticabili, le più belle in assoluto che solo l’Urbs può regalare, sembrano annunciare una nuova era.
Se ne va Enrico Befani, non prima però di aver conquistato, in maglia gialla, nella tarda primavera del 1961 una Coppa Italia contro la Lazio a Firenze, già sfuggitaci nel 1958 a Roma con la stessa – ahi Maurilio Prini come hai potuto! – ma quella persa a Milano nel settembre 1960 fu dolorosissima. Ed una Coppa delle Coppe, in maglia bianca con colletto viola a V, la prima coppa internazionale di una squadra italiana di club, che oggi provocherebbe chissà quali sfilate in pullman con i calcianti trasfigurati in satiri e menadi di Dioniso.
La gioia di Luigi Milan da Mirano, consueto serbatoio veneto, tre delle quattro reti sono sue, è invece asciutta all’andata come nel ritorno a Firenze. Solo Uccellino, io c’ero, tuffandosi per l’esultanza dopo una fantastica convergenza da destra che ricorda un po’ il suo goal contro la Germania Ovest ai Mondiali di Svezia, ci procurò un po’ di apprensione e la riprovazione del babbo che giudicò eccessivo quel gesto. Figuriamoci! Chiappella in un commento dice che i Rangers ce l’avevano con questa Fiorentina ed aggiunge testualmente che menavano come le bestie. Eppure nel filmato sfocato per filologi su YouTube della partita di Glasgow si vedono i campioni scozzesi, tradizionalmente protestanti ed unionisti, i cattolici stanno col Celtic e ci elimineranno immeritatamente ai quarti della Coppa dei Campioni nove anni dopo, aspettare all’uscita dal campo di giuoco a fine gara i nostri, capitan Orzan in testa, per salutarli. Another time another football.
Il Presidente più grande, Enrico Befani, anche per noi laudatores del Marchese Ridolfi, eletto all’unanimità il 29 dicembre 1951, trasformò profondamente la Fiorentina, come ci ricorda il Museo Fiorentina, che diventò una società professionistica d’avanguardia. L’innovazione organizzativa fu coniugata all’innovazione tecnica, con la scelta di Fulvio Bernardini come allenatore. Il palmares nazionale ed europeo non ha bisogno di chiosature, i viola sono la prima squadra a portare lo scudetto a sud dell’Appennino. C’è una bella foto scattata il 23 ottobre 1960 allo stadio in occasione di Fiorentina-Juventus. Ne ritrae la risata ammaliante e disinvolta con un accenno di basette bianche che fanno concorrenza a quelle dell’Avvocato che sta al giuoco divertito, tra Umberto che segue timidamente il fratello ed un Artemio Franchi vigile con un sorriso di cortesia.
Ci sono tutti gli spiriti animali del capitalismo della piccola e media industria della Ricostruzione italiana dopo la guerra perduta entrata nel boom economico, l’industria tessile pratese, di fronte alla nuova Casa regnante sabauda che con questa realtà sa di doverci fare i conti.
Quel giorno vincemmo 3 a 0, ma fu un miraggio perchè arrivammo settimi e fu l’ultima rete di Montuori, poi un grave infortunio agli occhi ci privò a soli ventotto anni di uno degli artefici del primo scudetto.
Un lucido Kurt, impartendoci una lezione di geopolitica del calcio, sempre nel preziosissimo libro di Fabrizio Borghini sugli anni d’oro della squadra viola, sostiene che nell’ acquistare i giuocatori furono determinanti le amicizie di Befani a Milano e Torino, dove magari si voleva che la Fiorentina fosse una squadra competitiva ma che non desse noia nella lotta per lo scudetto.
Quasi a confermare la tesi il campionato 1959-60, senza più Sergio Cervato andato a vincere a Torino, dubito che avrà gradito questo premio alla carriera. Resistono Chiappella, Gratton e Segato, quest’ultimo capitano degli azzurri che il 6 maggio 1959 per la prima volta escono imbattuti da Wembley (2-2). Dopo aver sconfitto a Firenze la Gobba, come chiamavano la Juve a Torino prima delle grandi migrazioni dal meridione, con un pallonetto, oggi si chiama orribilmente scavetto, del solito Uccellino, farà altre 26 reti, rompemmo come da copione nel finale per arrivare secondi per la quarta volta consecutiva. Risento ancora la delusione per il pareggio al 90º del laziale Carradori (2-2) in una partita casalinga che trovai stranamente quasi rassegnata pur essendo ancora in corsa per lo scudetto a sei giornate dalla fine. Quel Carradori di cui contestiamo l’autorete dell’andata, 5 a 0 a nostro favore con doppietta di Montuori, che è invece da riattribuire come goal ad Hamrin. Ma su questo e su un altro episodio simile torneremo a tempo debito per restituire al nostro fuoriclasse svedese il primato che gli appartiene.
Eravamo nella seconda metà degli anni cinquanta non so se la squadra più forte in assoluto, come ebbero a sottolineare i campioni orgogliosi del 1956, ma sicuramente la più continua e la Coppa delle Coppe del 1961 confermò la nostra caratura internazionale dopo il furto del Bernabeu di quattro anni prima.
Real Madrid con Di Stefano, Puskás e Gento che battemmo per 2 a 1 allo stadio il 9 settembre 1959, grazie all’occasione offerta dalla Coppa Centenario La Nazione. Segnarono Lojacono e Montuori, Puskás per le merengues, che, tanto per capire chi avevamo di fronte, collezioneranno nel 1960 per la quinta volta consecutiva la Coppa dei Campioni e la prima Coppa Intercontinentale dei Club Campioni. E non c’erano sostituzioni durante la gara. Non chiamiamola rivincita anche se noi ragazzi la vivemmo come tale, però quelle di allora erano sempre partite sentite, l’onore un valore e l’attaccamento alla maglia faceva realmente to be a different…
L’uscita di Befani e Montuori chiude il ciclo più prestigioso del nostro calcio, il suo magnifico allure non sarà mai più raggiunto, neanche da quella intelligente Fiorentina yè yè che pure conquisterà con pieno merito il secondo scudetto.
Quando arrivai a Firenze la città era bellissima, mi disse un giorno un emozionato Giuliano Sarti, lui così freddo tra i pali.
La Pira Sindaco fino al 1965, Mattei che comprò il Pignone, ma mio nonno fu licenziato prima, cadrà a Bascapè nell’autunno del 62 ed il primo centro-sinistra di Fanfani nel giugno dopo, e gli altri sindaci che gli succedono, la qualità della classe dirigente era alta, ricostruiscono e rilanciano la sua economia ferita gravemente dalla guerra e la Fiorentina ne è un’icona incomparabile.
Si parla spesso fiorentino allora nei luoghi del potere statuale e del sistema mediatico. Ricordo alcuni anni fa un programma televisivo sulla radio di Renzo Arbore dominato dalla nostra favella. I’ Grillo Canterino detta i tempi del pranzo domenicale ed alimenta quello spirito mordace e canzonatorio che, spesso male imitato perché troppo raffinato, sarà la nostra cifra. È l’Italia che il maestro Manzi di Non è mai troppo tardi unifica linguisticamente, o se preferite ne supera la ricchezza delle specificità dialettali accompagnando il miracolo economico. Il secondo scudetto dopo l’alluvione del 1966 sarà lo coda sportiva di questa egemonia fiorentina difesa negli anni cinquanta dai Bernard Berenson della migliore intellettualità internazionale sopravvissuta alla rottura bellica.
Sarà il campionato 1961-62 a dare l’addio alla più bella storia viola mai vista.
Gianni Bonini – Viola Club Franco Nannotti
Per vedere ed ascoltare Arrivederci nella interpretazione di Don Marino Barreto Jr. clicca qui