Breve storia degli sponsor nel calcio

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BREVE (BREVISSIMA!) STORIA DEGLI

SPONSOR NEL CALCIO

Tranquilli i miei 25 lettori (magari!): si tratta di una esposizione sintetica, perché in un mondo di comunicazione rapidissima (e spesso superficiale) se appena ci si dilunga la noia è dietro l’angolo.

Tuttavia non si può non iniziare dal significato del termine “sponsor”. Come in molti altri casi parola anglosassone di derivazione latina, cioè dal verbo “spondere”, promettere. In pratica lo sponsor è il “promettitore” di una cifra in cambio di pubblicità.

Restringendo il campo al nostro amato calcio la forma più nota e immediata prevede che in cambio appunto di denaro, un’azienda veda il proprio nome sulla maglia, ma in origine non era così. Già, l’origine: quando sono iniziate in Italia le sponsorizzazioni? Scorrendo i nomi delle squadre partecipanti ai vari campionati degli anni 30 si trovano la “Savoia Marchetti” di Sesto Calende (Varese) espressione della omonima fabbrica di aerei, la “Cirio” della già nota azienda alimentare, la “Marzotto Valdagno”. Ma anche la “Falck Sesto San Giovanni”, la “Marelli” sempre a Sesto San Giovanni: come si può facilmente intuire si trattava in sostanza di attività dopolavoristiche, favorite dalla proprietà perché in quegli anni la forma fisica era voluta anche dallo Stato a impronta fascista. E poi, anche se il marketing era ancora “naif”, un po’ di pubblicità arrivava. Non certo da scritte sulle maglie ma dal nome che “circolava”. D’altra parte le immagini non erano ancora così importanti.

Molto curioso quanto accade durante la seconda guerra mondiale a Torino. Dove le due squadre maggiori, Torino e Juventus legarono il proprio nome a due case automobilistiche operanti in città: la “Cisitalia” (attiva fino al 1963) e la “FIAT”. Ma, ecco la curiosa sorpresa, fu il Torino a “unirsi” alla FIAT. Con tanto di logo sulle maglie!

1944: una formazione del “Torino FIAT”, con simbolo della casa automobilistica sulla maglia. Sono già presenti in squadra alcuni dei giocatori che dettero origine alla leggenda del grande Torino come Mazzola, Piola, Ossola, Gabetto, Ferraris. Il portiere era Griffanti, proveniente dalla Fiorentina alla quale sarebbe poi tornato.

Si dice che più che per una vera e propria sponsorizzazione, il legame con le fabbriche automobilistiche serviva a permettere alle due società di evitare la chiamata alle armi ai propri atleti,

che venivano fatti passare per “indispensabili” operai. E infatti col finire della guerra terminò anche questa unione.

Nel dopoguerra comunque, con il ritorno dei campionati, nascono le prime vere sponsorizzazioni. Nel 1953 il Vicenza fu sostenuto economicamente dal lanificio esistente in città, il poi famosissimo “Lanerossi”. Il marketing era già un’attività più articolata e nel caso specifico dette origine alla iconica “R” maiuscola originata da un filo di lana rossa

Sempre in quegli anni il Monza si lega alla industria di carne in scatola “Simmenthal, che estenderà in modo più proficuo il proprio nome alla squadra cittadina di basket.

Le maglie del Monza non prevedono il marchio commerciale, mentre le tute riportano in modo evidente il nome delle celebri scatolette, ma come già detto non è ancora un mondo di immagini e l’importante è che circoli il nome, magari sui milioni di schedine del totocalcio.

Ci riprova anche il Torino, sponsorizzato dalla fabbrica di cioccolato “Talmone”. La bella “T” bianca ben in evidenza sul petto, ci permette di sottolineare che, come nel caso del Vicenza, non sono permesse “scritte” per esteso, ma solo lettere o simboli che prendano il posto del distintivo sociale. Non fu una bella esperienza quella granata perché, proprio nel decennale della tragedia di Superga, la squadra per la prima volta nella storia retrocede in serie B.

Il Talmone Torino schiera quello che divenne poi un personaggio mitico del calcio italiano: Enzo Bearzot

Anche al Mantova, sponsorizzato dalla locale azienda petrolifera “OZO”, fu possibile mettere solo la iniziale “O”, ma ben diverso fu l’esito sportivo di questo connubio: la squadra in quattro anni, dal 1957 al 1961, salì dalla quarta serie alla serie A, caso unico nella storia del calcio Italiano.

Anni 60: la pubblicità entra nel calcio

C’è un Fiorentina-Napoli al Comunale di Firenze. Chiarugi non si tira indietro. Sullo sfondo Sivori e Merlo, non due qualsiasi. E soprattutto una muraglia umana, sormontata dai cartelloni pubblicitari dell’epoca…

È indispensabile sottolineare come l’assenza (o presenza minima) delle sponsorizzazioni non significa che il calcio non attirasse il mondo delle pubblicità, anzi. Due i fenomeni alla base di questa “unione”, il cosiddetto boom economico, con beni di consumo da pubblicizzare e disponibilità di spesa maggiori, e la diffusione della televisione. Fondamentalmente però le “réclame” si facevano negli stadi con i cartelloni a bordo campo, e soprattutto sulla sommità degli spalti. Ciò li rendeva visibili sia in tv che dalle decine di migliaia di spettatori presenti alla partita.

Certo nelle serie minori si trovano ancora esempi di abbinamento nome squadra-nome azienda, e uno dei più celebri (anche se di una squadra di serie C) riguarda le faccende viola. L’imprenditore Cavallo acquista e diventa presidente di una squadra dell’Astigiano l’”Astense Club Torretta” (seconda categoria) al quale aggiunse l’acronimo della propria azienda, la Manifattura Confezioni Biancheria. Nacque così l’”Astense Ma.Co.Bi” che avrebbe poi assorbito la decaduta Asti, dando origine nel 1965 all’”Asti Macobi”. Club nel quale, come sanno, o dovrebbero sapere, tutti crebbe Giancarlo Antognoni.

La svolta degli anni 70

È negli anni settanta che gli sponsor entrano prepotentemente nel calcio. La storia ci dice che a livello europeo (e forse mondiale) il primo esempio di sfruttamento pubblicitario delle maglie avviene in Germania. Nel 1973 il presidente dello “Jagermaister” (proprio il celebre amaro) propone di aiutare la vicina squadra dell’Eintracht Braunschweig, che naviga in brutte acque. Anche la Bundesliga è piuttosto severa in merito di pubblicità ma il proprietario dello Jagermaister propone e ottiene di cambiare il distintivo della squadra che da allora assume il famoso cervo nero.

E in Italia? Nel 1974 viene liberalizzato lo sfruttamento personale della propria immagine da parte dei calciatori. Un esempio riguarda un giocatore viola, e non uno qualsiasi…

Lo scopo dei creativi ai quali è affidata la campagna pubblicitaria della “Facis” è evidente: il giovane talento della Fiorentina ha molte qualità, ma la più evidente e la sua eleganza nel giocare. Quella eleganza di portamento che portò un famoso giornalista a descrivere Antognoni, proprio il giorno dell’esordio, come “il giocatore che gioca guardando le stelle”. Perciò quale connubio migliore per una fabbrica di abiti eleganti?

Verso a fine del decennio un’altra svolta: viene permessa la visibilità del cosiddetto “sponsor tecnico” cioè il fornitore dell’abbigliamento sportivo del calciatore.

Anche in questo caso è nella città del giglio che si realizza una delle realtà più belle.

Certo è facile essere accusati di scarsa obiettività, ma ditemi voi se queste casacche con le tre strisce e il logo Adidas, non sono tra le più belle viste a Firenze. Certo scompare la mitica lanetta e le altrettanto mitiche “Sorelle Tortelli”, ma la resa estetica, soprattutto sul verde del campo, è superba…

Ma la spinta delle aziende per ottenere il massimo, e cioè la presenza del proprio nome o del proprio simbolo è ormai fortissima, e mette a dura prova la resistenza della FIGC. Ci sono allora degli escamotage divenuti poi famosi.

Nella stagione 1978-79 l’Udinese militava nel campionato di serie B. Il proprietario della squadra bianconera era Teofilo Sanson, che possedeva anche l’omonima industria alimentare nota soprattutto per i gelati. Dato che il regolamento FIGC esplicitava il divieto di apporre scritte sulle divise da gioco, Sanson pensò di aggirare il divieto ponendo la scritta sui pantaloncini. Naturalmente le autorità intervennero e il giudice federale, in realtà allargandosi un po’, condanno l’Udinese a 10 milioni di multa, perché il regolamento regolava appunto le “divise da gioco”, nel quale furono fatti rientrare anche i pantaloncini. Comunque, per la ferrea regola delle pubblicità “bene o male purché de ne parli”, la furbata di Teofilo Sanson ebbe un ottimo riscontro in termini di conoscenza del marchio.

Ma un altro mattone del muro che manteneva i colori sociali immacolati era caduto. E soprattutto era stata battuta la strada delle idee per aggirare i regolamenti. Così nell’agosto del 1979 il Perugia disputò la partita di Coppa Italia con la scritta “Ponte” in bella vista sulle maglie: Cosa era accaduto? Il presidente dei grifoni era Franco D’attoma, poliedrico e vivace imprenditore ma anche ottimo dirigente calcistico. Nell’estate appunto del 1979 ottenne addirittura le prestazioni di Paolo Rossi. Si trattava di un prestito biennale di 400 milioni a stagione e ci si doveva inventare qualcosa. D’Attoma trovò un accordo con la “Perugina-Buitoni” per una sponsorizzazione appunto di 400 milioni, a “favore” del marchio “Ponte”, un pastificio nell’orbita Buitoni. Ma come comparire sule maglie? D’Attoma era nella direzione dello storico marchio di abbigliato sportivo “Ellesse”, che era stato il fornitore della nazionale azzurra nel mondiale argentino del 1978. Esperto perciò di abbigliamento sportivo, creò dal niente il maglificio “PONTE”, che divenne lo sponsor tecnico del Perugia.

È veramente interessante questa foto, non solo per la presenza di 2 ex viola (Della Martira e Casarsa, in rosa anche un giovanissimo Celeste Pin), ma anche perché il logo “Ponte” compare sulle maglie di tutti gli atleti ad eccezione di Paolo Rossi che aveva accordi commerciali con altro sponsor tecnico.

Anche in questo caso il “trucco” non venne accettato e il Perugia fu multato per 20 milioni e D’Attoma squalificato. Tuttavia il marchio “Ponte” continuò ad essere presente su tute e maglie da allenamento, e data la splendida stagione del Perugia (secondo e imbattuto in campionato) il ritorno pubblicitario fu notevole. Anche altre società iniziarono a marcare almeno i propri indumenti da allenamento (e quelli dei raccattapalle) con scritte facenti riferimento a diverse industrie: il Genoa con “Seico”, il Cagliari con “Alisarda”, il Torino con “Cora”. Ormai era difficile mantenere l’ultimo tabù e cioè i colori sociali liberi da ogni contaminazione commerciale, e dalla stagione 1981-82 furono permessi 100 cm2 di esposizione pubblicitaria sul davanti della maglia.

Difficile dimenticare quale fu la prima volta viola, anche perché insieme al marchio di abbigliamento “J.D.Farrows”, sulle divise comparve un altro frutto del marketing dell’epoca, il celebre e discusso giglio alabardato.

Eccola la famosa e discussa prima maglia della Fiorentina con sponsor. Le discussioni riguardarono soprattutto il giglio, per alcuni un capolavoro di modernità unita alla tradizione, per altri semplicemente “orribile”. Tra l’altro a figurina riporta erroneamente “Daniele”…

Qui di seguito si riassumono i principali sponsor tecnici e commerciali

Cosa avvenne dopo quel fatidico 1981 è ormai noto a tutti, con la lenta inesorabile invasione di ogni spazio disponibile: sulle maglie ecco i “back sponsor” (parte inferiore del retro della maglia) gli “sleeve sponsor” (parte esterna delle spalle). E oltre alle maglie ecco i parastinchi, i guanti da portiere, le pettorine, gli spazi dietro le panchine, le panchine stesse.

Per i romantici del calcio una profanazione, ma così va il mondo. C’è un’unica consolazione: la necessità di distinguere i componenti di una squadra dagli avversari, ha fatto sì che il colore delle maglie debba essere mantenuto nella sua quasi totalità.

Può sembrare un’affermazione scontata e di poca importanza, ma al contrario c’era il serio rischio di finire come i piloti di F1 degli anni 80, o degli attuali pallavolisti… Insomma poteva andare peggio. “Poteva piovere”, aggiungeranno i più maliziosi…

Alessandro Coppini – Viola Club Franco Nannotti

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