Un’altra stagione se n’è andata. Gli anni passano, la memoria talvolta tradisce. C’era Boranga in porta, non Albertosi, in quel Fiorentina-Inter del gennaio 1967 che dissolse i sogni di gloria cresciuti subito dopo l’alluvione. Nessuna manina amica ci aiutò, ché il calcio è mistero senza fine bello ma anche metafora della vita nei suoi aspetti crudeli e grotteschi. Ve lo garantisco.
A Bologna, era il 20 novembre 1966, soltanto quattordici giorni erano passati, ed i tifosi felsinei, com’era giusto che fosse in quel mondo ancora identitario e campanilista lontano dall’attuale intollerabile melassa, non ci risparmiarono i cori contro. L’anno prima, a ridosso del loro scudetto del 1964, avevo provocato una piccola rissa, succedeva spesso in quei bei tempi, al massimo qualche scazzottata e non c’erano né steward, figuriamoci hostess, né daspo, sotto la Torre di Maratona di Leandro Arpinati. I tifosi rossoblu ci aspettavano rumorosamente ma simpaticamente, va detto, fuori di un bar sulla strada che congiungeva l’uscita autostradale di Casalecchio collo stadio, la tangenziale era da venire. Il derby dell’Appennino era molto sentito, ne dà una felice e surreale testimonianza Bar Sport, il film tratto dall’omonimo libro di Stefano Benni.
Per inciso l’anno scorso ho avuto modo di apprezzare l’entrata monumentale del Dall’Ara, stile del ventennio che personalmente apprezzo, impreziosita dalla Vittoria alata bronzea che originariamente doveva essere collocata sul pennone della Torre. Sic transit gloria mundi.
La Vittoria alata
Pareggiamo 1-1, giuocammo un primo tempo stratosferico, riguardatevelo su YouTube, goal di Brugnera e sfortunata autorete di Brizi. Prestazione che ripetemmo, se possibile ancora meglio, con la Roma a gennaio in casa, senza aver digerito l’immeritata sconfitta con quell’Inter mondiale che avevamo battuto l’anno prima nell’epica semifinale di Coppa Italia a Firenze 2-1, Uccellino al 90º e salvataggio finale di Castelletti – rendiamogli onore – sulla linea di porta a portiere battuto; nonostante l’ineffabile Signor Varazzani di Parma (allora si usava citare la provenienza come segno di riconoscimento).
Finì 2-2 quel 22 gennaio, Brugnera e Bertini non bastarono, la squadra giuocò un primo tempo a memoria, ad un ritmo mai più visto, lo stadio ancora fradicio, era smesso di piovere da poco e si stava in piedi in Maratona. Anche quello non era l’anno giusto, la campagna acquisti ci aveva indebolito e la carica dei nostri splendidi Yéyé si infranse contro gli esperti quadrati dell’asse Milano-Torino.
Un difetto di intelligence che riparammo fortunatamente due anni dopo, la cautela di Nello Baglini l’11 maggio 1969, negli spogliatoi di Torino, freschi campioni d’Italia, però non la colse nessuno. Ci inebriammo a settembre con il premio i Numeri Uno presieduto dal senatore Piero Bargellini, i nostri Albertazzi e Zeffirelli radiosi, i giuocatori rigorosamente in smoking, in Rai-Tv si parlava fiorentino.
Di seguito alcuni link che rimandano ai filmati indicati
1 – Archicio Luce – A Firenze consegnati i premi “Numero Uno” – 24/09/1969
Firenze si lasciava alle spalle le ferite dell’alluvione ed il viola non era la droga del padrone, come era scritto sul muro del Michein via della Colonna. Il da me compianto Marcello Giannini dava voce al nostro orgoglio ed in Oltrarno non ci si imbatteva nelle algide modelle fashion della Turbofinanza, piuttosto nell’ironia antica degli artigiani educati dalla maestria di Brunelleschi, di Masaccio e Masolino, con un po’ di fortuna in Cristina Campo e Mario Luzi.
L’estate però non ci aveva rafforzati e Lo Bello non si lasciò intimidire dal 7-0 al Bari in Coppa Italia, né dal Dottor Jekyll e dall’aura shakespeariana esibita al Palazzo dei Congressi.
Col Cagliari capimmo che sarebbe stata durissima. Il Grande Concetto – dalla famosa partita con l’Inter di un altro gennaio, quello del 1961, era nei nostri cori il Duce – sfoderò il consueto piglio, che per un attimo ci apparve quasi beffardo nell’incedere ad annullare per fuorigioco passivo di Mariani il pareggio di Chiarugi; imperturbabile poc’anzi aveva volto un rigore su Merlo in un’ammonizione per simulazione. La regola non scritta della compensazione per il rigore dubbio fischiato a Rizzo per una spinta a Zignoli non scattò. Non sarà l’ultima volta. Becchi e bastonati, beccammo pure una squalifica del campo per le proteste, la domenica successiva a Roma contro la Lazio crollammo. Un 1-5 umiliante, io naturalmente c’ero, un soleggiato autunno romano così diverso da quel trionfale 29 settembre dell’anno precedente.
2 – Celtic Glasgow – Fiorentina – 4 Marzo 1970
https://www.youtube.com/watch?v=8W91sAAWbH8&list=PLVLv8TgfCZGS_p1VyxqPSsP4gNFnD6Yje&index=2&pp=iAQB
E a Glasgow fu la nostra Waterloo come cantano gli Abba. Quanto rammarico. Sembra che a Maraschi non gli fosse passata neanche in tarda età e continuasse ad avercela con il Petisso per aver tenuto fuori Chiarugi; tra l’altro al cospetto della Sora Alvara che al Grillo Canterino aveva annunciato con la consueta nonchalance il suo viaggio in Scozia al seguito. Fummo buttati fuori dalla Coppa dei Campioni malamente, a nulla valse l’ottima prova al ritorno, per ingenuità e timore reverenziale da una squadra, il Celtic dei cattolici, specialmente irlandesi, alla nostra portata; Jimmy Johnstone compreso (chi se lo ricorda?) che pure aveva vinto tre anni prima il trofeo contro un’Inter già in fase discendente.
3 – Il grillo canterino
https://www.youtube.com/watch?v=3XWeUuyp72I&pp=0gcJCdgAo7VqN5tD
Di fronte all’evidenza di essere stati messi in salita avevamo reagito male e ne buscammo, l’annata finì nell’anonimato.
L’anno successivo rischiammo addirittura la retrocessione, increduli, e Bettega ci fece ballare sul precipizio sino alla fine.
La malinconia s’era invitata da sé.
Eupalla, la Dea che presiede alle vicende del calcio, a dispetto del suo eu benevolo non ci ha mai arriso più di tanto. Certo, come osservava Giuliano Sarti, uomo intelligente, quel goal di Schiaffino all’inizio del mitico 3-0 al Milan del 1956 con i metodi di valutazione attuali sarebbe stato regolare. Troppi ed enormi sono gli episodi a nostro sfavore per allinearci agli insopportabili benpensanti che ci ammoniscono sul fatto che alla fine i vantaggi e gli svantaggi si equilibrano.
Balla sesquipedale. Ecco perché l’ho presa così lunga. Non è una frignata sul destino cinico e baro, voglio precisare, ma sulla tragica grandezza del calcio, nato english game elitario per diventare il più importante soft power popolare del Novecento, quasi un’altra religione flessibile e pervasiva, che sacralizza e mette in scena le passioni e gli istinti tribali delle masse proletarie affacciatesi sulla e nella Storia. Sono le tribù del calcio di Desmond Morris. E che quindi non può che riflettere i rapporti di forza reali travasati nel rettangolo verde, il tappeto della roulette da cui non riusciamo a staccarci più di tanto, anche quando ostentiamo occupazioni ed impegni alti. Ci scappa sempre, con la finta indifferenza che nasconde l’ansia, un “che ha fatto la Fiorentina?”.
Come nel finale di Sistemo l’America e torno di Nanni Loy. Paolo Villaggio appena decollato dagli States si commuove dopo aver saputo che il Torino ha perso e che Pulici ha sbagliato un rigore, in realtà pensando all’amico cestista rimasto ucciso in un tafferuglio razzista. Ed il tifoso viola che sta spelluzzicando al bar dell’aereo se ne esce con un magnifico “oh signore, ma icchè la fa, ma che piange perché Pulici l’ha sbagliato il rigore?!”.
4 – “Sistemo l’America e torno” (1974) scena finale con Paolo Villaggio tifoso granata, rigore Pulici
https://www.youtube.com/watch?v=CKsEdfjnc5w
Non poteva essere rappresentato in modo migliore il sentimento che ha informato più generazioni a partire dagli anni trenta per raggiungere l’acme in crescendo nel dopoguerra.
Filippo Luti lo spiega bene e ne indaga le ragioni dell’affermazione con il rigore documentario dello storico. Il numero speciale della nostra rivista sulla nascita della Fiorentina è un contributo alla storia della città e del suo popolo. Dante Alighieri lo contrapporrebbe senza indugio alle narrazioni reticenti ed edulcorate del politicamente corretto.
Era diventata una vera religione familiare. In casa mia era impensabile che albergasse una qualsiasi variante di tifo che non fosse viola. Il babbo, irriducibile saragattiano ed implacabile accusatore di Togliatti (era juventino?), non lo avrebbe consentito. E quando ignaro ma non innocente mimavo colla palla tra i piedi nell’angusto corridoio delle quattro stanze conquistate sulla scia del cooperativismo della Selt-Valdarno ante Enel e del Piano Fanfani, le prime mosse calcistiche evocando per l’appunto proprio Schiaffino, chissà dove l’avevo preso, puntualizzò immediatamente che non era della Fiorentina. Tanto bastò a desistere. E come dimenticare che da bambino mi fu regalata una maglia col 9 di Virgili, un dono ambito come il pallone di cuoio giallo, in omaggio al primo scudetto, di un bel viola pastoso come quello del cameo che gli ha dedicato Un tè con Mussolini.
La Fiorentina era Firenze e Firenze era la Fiorentina.
Gianni Bonini – Viola Club Franco Nannotti
(fine prima parte – prosegue nel prossimo numero)