C’è stato un tempo in cui in Coppa dei Campioni andavano soltanto le squadre campioni e i colori delle maglie erano sacri e indiscutibili.
L’estate senza campionato sembrava infinita e con impazienza aspettavamo l’inizio dei gironi di Coppa Italia. Com’era attesa e genuina quella Coppa che portava le grandi società sui campi di Serie C, riaccendeva le passioni, riempiva gli stadi di provincia.
Il calcio era a misura d’uomo; la partita in TV era un evento e il mercoledì europeo un brivido lungo lungo. Il calcio era a misura di bambino; le partite non terminavano a mezzanotte, gli allenamenti erano accessibili e alle feste dei club potevi cenare con i giocatori.
Gli stadi e le vie limitrofe non erano transennati e le partite erano tutte in contemporanea (e che boato quando arrivava la notizia che la Juve stava perdendo ed eravamo in testa da soli…). Si giocava solo di domenica e quando la mattina ti svegliavano le campane – e realizzavi che era finalmente domenica- ti si apriva il cuore ed entravano speranze.
Le maglie erano senza sponsor e senza loghi federali e i numeri sulla schiena erano quelli “veri”, quelli che niente avevano a che fare con il basket. Le panchine non erano lunghe dodici metri e i minuti di recupero erano ragionevoli.
Trovare un calciatore con un tatuaggio era davvero difficile, ma per comprare il biglietto bastava dare la mano al babbo e passare dal botteghino. Sulla slanciatissima torre di Maratona sventolava un elegante e suggestivo bandierone viola; aveva il giglio “vero” ed era di una bellezza infinita…
Con gli altri bambini, interminabili partite in cortile e se eravamo senza radio uscivamo in strada. La domenica era tutto chiuso e lungo i marciapiedi c’era sempre una moglie annoiata che passeggiava col marito; lui aveva cravatta e cappello, lo sguardo assente e una radiolina all’orecchio. Noi, polverosi e sudati, li avvicinavamo titubanti; avevamo il cuore in gola e una sola domanda: “Scusi, che fa la Fiorentina?”
Filippo Luti