Ricorre il prossimo 4 giugno la ricorrenza, ventisei anni fa, della morte di un signore, Miguel Montuori da Rosario in Argentina, che ha segnato in modo indelebile la storia viola e il calcio mondiale nella seconda metà degli anni cinquanta.
Assieme ad Antognoni e Baggio il più grande numero dieci visto al Campo di Marte, fece parte di quel dream team che tra il 1955 e il 1960 incantò tutti gli stadi italiani, demolì i grandi squadroni nazionali e con lo scudetto del’56 e la finale di Coppa campioni a Madrid dell’anno dopo segnò il punto più alto di tutta la storia viola.
Una storia di vittorie, quella di Miguel, di gesti tecnici irripetibili, di gol in serie (72), ma anche di sofferenze, di solitudine, di un tramonto rapido e drammatico indegno per un fuoriclasse irripetibile.
La grande Fiorentina dicevamo, che nell’estate del’55 il Presidente Befani assieme al DS Giachetti toccarono con una sorta di bacchetta magica trasformandola in un miracolo sportivo; eh sì, perché quella squadra era già fortissima: strutturata su una linea difensiva e mediana tra le più originali nella storia del calcio italiano, era già andata vicino a vincere il campionato nel 1954 non ripetendosi, per molta sfortuna l’anno dopo. Era chiaro ci volessero, per completarla, due campioni veri, adatti a competere fino in fondo con le grandi squadre del nord. Julinho, ancora oggi il più grande di sempre a Firenze, arrivò sulla scorta di recensioni straordinarie, molti soldi e un mondiale, quello del’54, da assoluto protagonista nel grande Brasile precedente a quello di Pelè. Pareva bastare quel grande acquisto e invece …. E invece nel disinteresse generale, grazie alle relazioni di un sacerdote italiano in Cile, giunse a Firenze da Santiago un argentino piccoletto, totalmente sconosciuto, nemmeno lontanamente paragonabile al neo brasiliano o agli idoli locali Virgili, Gratton e Bizzarri. Bastarono poche partite e si capì di essere davanti ad un fenomeno: baricentro basso, esile, ma con grande tenuta fisica, rapido nel breve come nessun’altro, ma soprattutto spietato davanti ai portieri avversari. Montuori non era né una mezz’ala e tanto meno un centravanti classico, ma un giocatore che dalla tre quarti in avanti sapeva smarcarsi e nei pressi dell’area trovare la porta con una facilità incredibile, segnando quasi sempre e spesso mandando in gol i compagni. Tredici gol il primo anno e un’intesa con Julinho, con Gratton, con Virgili, davvero impensabili per uno straniero ventiquattrenne appena giunto in Italia dal niente.
E il ragazzo non si fermò: amatissimo dai tifosi, innamorato di Firenze, continuò a segnare in ogni competizione fino a divenire un centravanti anomalo nella Fiorentina più offensiva di sempre, quelle del’58-59, con accanto un nuovo idolo, Kurt Hamrin, un centrocampista formidabile come Lojacono e un attaccante di grande rendimento come Petris. Ma Miguel aveva una caratteristica rispetto a tutti gli altri: era cattivo davanti alla porta e ai portieri; amava umiliarli, in una sorta di cinismo sportivo unito ad una classe immensa. Taciturno e con un aspetto emblematico di perenne sofferenza, era a lui che si affidavano i compagni nelle situazioni più complicate. Fu in un momento particolare della sua carriera, nella Fiorentina che si stava rinnovando di Hidegkuti, che avvenne il dramma della sua vita, a soli 28 anni: in una amichevole infrasettimanale, una violenta pallonata a Perugia gli provocò un aneurisma non riconosciuto subito e la fine assurda di una carriera straordinaria. Da allora il tentativo di fare il giornalista, l’allenatore, l’osservatore; il ritorno in Cile e poi ancora a Firenze, con molte difficoltà fisiche e finanziarie e la morte a soli 66 anni. Avrebbe potuto segnare ancora, si fermò, in tutti i sensi, troppo presto. Ma restano ancora scolpiti i suoi movimenti, prima accanto al mito brasiliano, poi all’uccellino svedese, a segnare un passato ormai divenuto mito eterno. Grazie Miguel per esserci stato.
Fabio Incatasciato