COSA HANNO RAPPRESENTATO E RAPPRESENTANO PER NOI
MERLO E CHIARUGI…
Non ho molto da dire a mio padre; anzi, ho pochissimo da dire; anzi, quasi nulla. Mi considero fortunato ad aver avuto un babbo così. Un educatore discreto, incredibilmente tollerante, astuto nell’agire nell’ombra per risparmiarci disagi e sofferenze, nel prendersi responsabilità senza rivendicarle. Un uomo dotato di un’abilità quasi magica nel dirottare su un binario morto i dolori non necessari.
Una sola cosa, a mezzo secolo e più di distanza, mi sento di rimproverargli: aver sminuito il secondo scudetto. Una cosa da poco, si dirà, ma a ben vedere non così banale. L’aggravante è che il babbo era un raffinato intenditore di football, e aveva operato una sapiente proiezione nella leggenda dei campioni del ’56. Ben sapendo che la Fiorentina non avrebbe ripreso stabilmente quel posto, che era inimmaginabile vincere a ripetizione, aveva scelto la divinizzazione di quegli undici. Un monoteismo, anzi un endecateismo.
Mi portò alla prima di campionato, a Roma, senza alcun sospetto. Era inpensabile che Merlo e Chiarugi, Rogora e Mancin, riuscissero e emulare Julinho e Montuori, Magnini e Cervato. Era contento quando all’87’ freddammo la Roma del Mago, ammutolimmo la prosopopea dell’Olimpico esaltata dal gol a freddo di Taccola. È il mio primo ricordo davvero nitido di Claudio Merlo: la sua discesa sulla destra sfugge all’inquadratura del servizio andato in onda la sera alla Domenica Sportiva e ancora reperibile in rete ma io la ricordo come fosse ora, o meglio ricordo l’accelerazione del battito mentre galoppava – al suo ritmo non frenetico ma con la sua ineguagliabile eleganza – proprio sotto di me, sotto la Tevere. Il servizio al centro era per lui elementare e fu eseguito con la tipica semplicità della sua classe di seta. Il modo in cui Mario Maraschi si avventò sulla sfera e fulminò a rete ebbe il tono perentorio della sentenza.
Passavano i mesi, la classifica migliorava ogni settimana, il babbo mi vedeva tornare a casa sempre più felice dal Comunale. Sulla borsa di tela acquistata al mercatino americano di Livorno con la quale andavo a scuola avevo scritto a pennarello le lodi dei nostri giocatori. Non ero molto fantasioso: “Picchio sei grande”, “Merlo sei forte”, “corri Cavallo Pazzo”. Nella speranza del trionfo avevo anche commissionato una bandiera a mia nonna, curandone l’apparato iconografico: sul recto il giglio, lo scudetto, i tre tondi della Coppa Italia, sul verso di nuovo l’elogio del capitano. «Ma possiamo vincere lo scudetto?» osai chiedergli a un certo punto. Sorrise con condiscendenza: «Se sono riusciti a vincerne uno solo Julinho e Montuori come pensi che possano vincerlo questi qui? Godiamoci questo momento e non facciamoci illusioni. Gli altri hanno Riva o Rivera, noi Merlo e Chiarugi». «Ma secondo te Chiarugi è tanto peggio di Julinho?». «Come Julinho ce n’è stato uno solo» disse. «E chi era?» «Julinho».
A marzo, però, ormai in uno stato di esaltazione, lo implorai di accompagnarmi allo stadio. C’era Fiorentina-Inter, un crocevia. Esitò, ormai le sue domeniche erano di assoluto riposo. Andava a letto dopo pranzo e dormiva fino a metà pomeriggio. Poi, insieme a mio zio, vedeva la partita delle sette senza sapere il risultato. Il tempo era uggioso, segnato da una (per lui) fastidiosa pioggerella. Il gol sporco di Chiarugi è ancora oggi, per me, il viatico per il tricolore. Una ciabattata di destro – in posizione dubbia –, Miniussi respinge maluccio, Luciano va a incornare e gli esce un velenoso pallonetto. Finisce in rete anche il portiere. Nell’intervallo io ero in un’agitazione incontenibile. Lui riuscì ad assopirsi appoggiato sull’ombrello. Tornammo a casa sotto l’acqua, il babbo volle stranamente prendere un tè al bar che c’era al Ponte del Pino. «Babbo, vinciamo lo scudetto» gli dissi. «Lo vinciamo noi!». «Eh, a questo punto tutto è possibile».
Il 18 maggio, tornando a casa dopo Fiorentina-Varese, glielo chiesi. «Ma non sei contento? Siamo campioni». «Certo che sono contento, ti pare?». Ma non lo vedevo raggiante come avrebbe dovuto essere. «Senti, l’ho capito che quelli del ’56 erano più forti. Ma se quelli di oggi non sono così forti dobbiamo ringraziarli anche di più». «Hai ragione» rispose. «Ascolta, facciamo così: quello del ’56 resterà sempre il mio scudetto. Quello di oggi sarà sempre il tuo scudetto».
Aver rivisto Claudio e Luciano, grazie all’iniziativa di Gianni Bonini, è stato onorare un debito lunghissimo. Erano più di cinquant’anni che li dovevamo ringraziare.
Francesco Salvi